«In città non c’è da fidarsi di nessuno»

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Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo il libro “L’illegalità protetta”, edito per la prima volta nel 1990 e ristampato nuovamente da Glifo Edizioni, dedicato a Rocco Chinnici e ai giudici del pool antimafia


Se non sbaglio, negli atti abbiamo una deposizione raccolta dalla Commissione del precedente consiglio in cui invece la decisione di Costa viene presentata come di principio, nel senso che in un’indagine di questa natura non si smentisce la polizia.

Questo io non lo so.

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Sarebbe… il giudizio del giudice istruttore? Lei è contrario a questa interpretazione?

Ma io non posso dare un’interpretazione del genere, perché intanto la decisione di Costa poteva anche discendere da questione di carattere giuridico; tutto sta a vedere il bagaglio culturale del magistrato, quello che il magistrato pensa della mafia, se il magistrato pensa che la mafia sia una qualsiasi associazione per delinquere, per colpire la quale occorre la prova dei singoli fatti delittuosi, allora poteva avere ingresso questo convincimento da parte dei collaboratori di Costa (dei sostituti) che Costa avesse obbedito ad un principio diametralmente opposto; cioè Costa pensava che la mafia è già di per sé associazione per delinquere: il rapporto mette in luce collegamenti e legami tra questi soggetti, quindi bastano questi collegamenti per convalidare. Questo è quello che penso io.

Questo, peraltro, è giurisprudenza della Cassazione; voglio dire, è un dato giuridico giurisprudenziale acquisito.

Io mi ricordo il primo processo di mafia che ho istruito a Palermo nel ’67, processo contro la mafia del quartiere «Uditore», una borgata di Palermo; il processo venne dalla Procura, allora si disse che era un processo – con termini siciliani – «vacante», cioè vuoto, senza prove.

Bene, io ho istruito il processo, previo mandati di cattura; in Corte di Assise, siccome i fatti erano collegati, sostenni l’associazione mafiosa; c’era pure un omicidio di un grosso mafioso; io ho istruito il processo.

In Corte di Assise di primo grado, furono assolti tutti per insufficienza di prove; in Corte di Assise di appello, furono assolti con formula dubitativa dall’omicidio, ma furono condannati quasi tutti per associazione per delinquere e la sentenza fu confermata in Cassazione, e io ho utilizzato elementi che a prima vista potevano apparire anche tenui.

Eppure il processo era venuto dalla Procura, anzi era sorto come processo a carico di ignoti.

Tu, anche per motivi di ufficio, e forse anche per rapporti personali, avevi – diciamo – stretto contatti con Costa. Ti ha mai detto, hai avuto la sensazione, comunque desunta da quello che ti ha detto lui, o il suo eventuale comportamento, che Costa avesse sentore, temesse, ritenesse in qualche modo che all’interno della Procura, cioè del suo ufficio, qualcuno, magistrato e/o non magistrato, in realtà potesse in qualche modo costituire elemento debole in questa lotta, nella conduzione delle indagini per qualche ragione, un elemento sensibile in qualche modo a ridistanze o a motivi diversi un elemento in qualche modo, non collegato, ma sensibilizzato ad ambienti con i quali, o verso i quali, non avrebbe dovuto avere sensibilità?

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Sì, ma devo ritornare su quello che ho detto inizialmente: io non ebbi quasi contatti con Costa perché non avevo tempo per tutto il 1979 (dal dicembre ’78 fino a dicembre ’79) perché la mia vita era un po’ tra Palermo e Roma per la questione io con Costa ebbi qualche incontro e parlammo. Parlammo di processi e io ebbi la sensazione che Costa fosse molto, ma molto prudente, perché era nuovo dell’ambiente e lui studiava l’ambiente; non solo esterno, ma anche l’ambiente del Palazzo di Giustizia.

Costa qualche volta mi manifestò delle perplessità di ordine generico – su questo desidero essere puntuale e preciso – ma perplessità diciamo caratterizzate da una certa diffidenza: mi diceva, parlando di Palermo: «In questa città non c’è da fidarsi di nessuno»; questo poi me lo ribadì in maniera più precisa e concreta quando, dopo l’arrivo di questi processi, dopo la presa di posizione dell’Ufficio istruzione, incominciarono ad arrivare delle minacce di morte a me direttamente con telefonate a casa, di cui alcune registrate. L’ultima specialmente. Io dovevo riferire oltre che portare il rapportino scritto.

Mi ricordo, una delle ultime volte, proprio per la telefonata più brutta, nella quale mi si disse: «Il nostro tribunale ha deciso che lei deve morire e l’ammazzeremo dovunque lei si trovi».

Ha parlato lei con questa persona, al telefono?

Sì, sì, ci ho parlato. Questa telefonata è registrata. Io andai da Costa e questi, sconsolato, mi disse: «Questa è una città nella quale non si può vivere», ed io ebbi il sospetto, poiché Costa non l’avrebbe mai ammesso – avevo imparato a conoscerlo – che anche lui avesse ricevuto qualche minaccia, altrimenti non si spiegherebbe questa frase così stringata e sibillina («Questa è una città nella quale non si può vivere»).

Lui non mi parlò mai di sospetti nei confronti del tizio o del «filano» di questo o di quell’altro ambiente, parlò di ambiente in generale, però, in cuor suo, da quegli accenni, lui credo che nutrisse qualche sospetto. Comunque era un po’ diffidente, ecco.

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