Sudan. La guerra alimenta la più grave crisi umanitaria al mondo


Avremmo voluto parlare di tentativi di pace, di uno stop ai combattimenti e di un ritorno dei rifugiati a casa, ma ciò che abbiamo di fronte, sebbene lo si sia raccontato più volte, è qualcosa che nemmeno i nostri occhi e le nostre orecchie riescono ad immaginare.

Sudan. La guerra che va avanti da oltre 20 mesi nel paese, è la principale responsabile della più grave crisi alimentare al mondo e sta mettendo in ginocchio il paese più giovane e più povero del pianeta.

Credits: WFP/Mohamed Galal

Lo sfociare di malattie, le decine di migliaia di morti (61mila nei primi 14 mesi di guerra), i 14 milioni di sfollati (tra questi circa 3,1 milioni hanno cercato riparo in un paese confinante), le tragedie legate ai cambiamenti climatici e la carestia dilagante che sta falcidiando oltre 48 milioni di persone (la metà della popolazione è a rischio di grave malnutrizione) costituiscono dati che immettono tale crisi su un piano difficilmente comprensibile.

Secondo il Global Hunger Index, il Sudan è al 110° posto nell’Indice globale della fame (GHI): presenta infatti l’11,4% della popolazione denutrita, il 39,6% dei bambini sotto i 5 anni sofferenti di rachitismo, uno stato di deperimento nei bambini sotto i 5 anni del 17,4% e una mortalità infantile salita al 5,2% nei bambini sotto i 5 anni.

Dopo mesi, una colonna di oltre venti camion contenenti aiuti umanitari sono riusciti a passare sull’asse di Jebel Moya, ed arrivare nella periferia della capitale. Una boccata di ossigeno per una popolazione allo stremo. Il convoglio organizzato dal PAM, Unicef, Care International e Medici senza Frontiere ha valicato il confine di Jebel Aulia entrando a sud della capitale col 27 Dicembre, così come riportato dai volontari sul campo.

Si tentano prove di normalità nelle zone riportate alla calma, ma proprio nelle ultime 48 ore un altro allarme ha destato il torpore della comunità internazionale. Gli studenti delle scuole, da oltre venti mesi privati dell’accesso alle strutture educative (perché sfollati o perché più semplicemente gli edifici sono andati distrutti) si ritroveranno impossibilitati a sostenere gli esami finali, iniziati il 28 Dicembre. Il governo sudanese ha infatti deciso che tali esami potranno essere espletati solo nelle zone controllate, lasciando fuori centinaia di migliaia di giovani, le cui speranze ricadevano proprio nel trampolino di un’istruzione superiore.

Ciò che porta a pensare ad un 2025 – per il Sudan – ben peggiore dell’anno che lo ha preceduto è la mancanza di una soluzione definitiva, una prospettiva di vittoria decisiva delle parti in conflitto. Le cose sono destinate a peggiorare per i civili nel nuovo anno, questo il responso degli analisti allo stato attuale.

L’arrivo di armi in abbondanza e molto più sofisticate rispetto a quelle utilizzate all’inizio del conflitto, rendono la fine dei combattimenti una prospettiva davvero lontana. Il Sudan oggi è un paese pieno di armi, le armi leggere sono; questa corsa agli armamenti è il nodo che ci porta a pensare che prospettive di pace a breve termine possano essere scarse.

© UNHCR/Ragione Moses Runyanga

I report delle nazioni unite e delle organizzazioni per i diritti umani hanno più volte tracciato rifornimenti di armi destinati alle Rapid Support Forces comandate dal generale Hemedti da parte degli UAE, sebbene Abu Dhabi abbia sempre negato il proprio coinvolgimento. D’altra parte la denuncia da parte delle Nazioni Unite dell’invio alle SAF (l’esercito sudanese) dei droni Mohajer-6 da parte dell’Iran rende bene l’idea di chi trae vantaggio da eventuali finanziamenti.

I combattimenti che negli ultimi mesi hanno riportato le SAF a riconquistare alcune zone andate perdute nella prima fase del conflitto, avevano fatto pensare ad una svolta nella guerra, ma le azioni militari si sono presto affievolite, cosa che ha portato le RSF a rioccupare zone abbandonate pochi giorni prima, in un capovolgimento di fronti repentino ed instabile.

E’ vero, la riconquista dell’asse Jebel Moya, a sud della capitale Khartoum, permette oggi all’esercito di avere un ponte logistico che lo mette in grado di di lanciare azioni militari nello Stato di Gezira, il cuore agricolo del Sudan, cosa fino a poco tempo fa impensabile.

Per mesi infatti l’unico ponte con il sud del paese è stata la città di El Fasher, capitale dello stato del Darfur. Una città assediata, bombardata, nella quale sono stati denunciati casi di centinaia di uccisioni extragiudiziali su propalazione etnica, stupri, sottoposta a bombardamenti che hanno costretto decine di migliaia di persone ad ingrossare le fila degli sfollati che ad oggi, ricordiamo, contano 14 milioni di persone.

Credits: Reuters

Nonostante le notizie di vittorie, perdite e riconquiste si susseguano, ciò che appare chiaro agli osservatori è che non vi è e non risarà a breve termine una svolta militare poiché nessuna delle due parti militari ha laforza di capovolgere la situazione mentre i due contendenti (Al Bhuran ed Hemedti) sembra non abbiano un atteggiamento adeguato alla pacificazione del paese, o forse nessuna intenzione di arrivarvi seriamente.

L’odio tra le due parti preclude qualsiasi ipotesi di dialogo e la militarizzazione del paese fa comodo a molti. Non avere alcuna intenzione di sedersi al tavolo purtroppo ci porta a dire che la pace non è e non sarà a breve termine dietro l’angolo.

Appare evidente che di fronte una situazione come quella descritta, senza alcuna cessazione dei combattimenti o percorso di pace evidente, rimane ciò abbiamo sul campo. Una frammentazione geografica e sociale totale, destinata ad aggravarsi, con i signori della guerra appartenenti ai vari clan, che schieratisi con l’una o l’altra parte a reclamare delle zone di influenza e controllo.

 

 

 

 

 



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