A Teheran il silenzio sul caso di Cecilia Sala è totale. La notizia del suo arresto del 19 dicembre e della sua reclusione in isolamento nella prigione di Evin non è stata diffusa da nessun canale ufficiale, né è apparsa tra i lanci dell’agenzia Mizan, che normalmente funge da portavoce del sistema giudiziario iraniano. Così come il ministero degli Affari esteri si rifiuta di commentare, e così le notizie che filtrano sui media di lingua persiana all’estero, al massimo, si limitano a riportare la versione italiana della storia.
La voce più ricorrente, come sempre quando in Iran le comunicazioni tardano ad essere diffuse, è che ci siano disaccordi tra la classe politica e i servizi di sicurezza: un’impressione che pare confermata dai recenti contrasti emersi tra il presidente Masoud Pezeshkian, che voleva allentare le maglie della censura online, e gli apparati di intelligence, che si sarebbero messi di traverso rispetto a questa decisione.
CHE IN IRAN non si parli della vicenda di Cecilia Sala – prima giornalista straniera arrestata nel paese, negli altri casi si trattava di persone di origine iraniana o con la doppia nazionalità – significa inoltre che il governo avrebbe deciso di mantenere un profilo basso e che ci sono state interlocuzioni con la Farnesina. E se ancora non si sa nulla su quali siano le accuse che hanno portato all’arresto della giornalista italiana, resta in sospeso anche un’altra domanda, forse anche più pesante: chi ha dato l’ordine di fermarla? L’esecutivo o i servizi di sicurezza?
Nelle ultime settimane, vista e considerata l’alta tensione sul fronte mediorientale, la diplomazia di Teheran è molto impegnata a stemperare i toni e, di certo, il caso Sala non va in quella direzione. Sembrerebbe escluso, comunque, che l’arresto sia legato al lavoro che la voce del podcast Stories stava facendo nel paese dal 12 dicembre, data del suo arrivo. L’unico elemento in qualche modo problematico per il governo potrebbe essere l’intervista fatta a Hussain Kanani Moghaddam, ultraconservatore e sostenitore delle ambizioni nucleari del regime, ma nel colloquio si parla per lo più di eventi passati, senza particolari agganci con l’attualità. Più caldeggiata, anche dai media in lingua farsi, è l’ipotesi di un nuovo episodio di «diplomazia degli ostaggi», dottrina che l’Iran utilizza a fasi alterne da quasi mezzo secolo. E qui arriva la coincidenza con l’arresto in Italia del ricercatore Mohamed Abedini, 38 anni, avvenuto il 16 dicembre scorso (tre giorni prima di quello di Sala, dunque) su mandato degli Stati Uniti, che lo accusano di aver fornito componenti per droni al Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche.
GLI ARRESTI di scienziati e ricercatori iraniani all’estero hanno registrato un aumento significativo negli ultimi anni: un dettaglio che a Teheran non si può di certo ignorare e che rimanda a un caso avvenuto nel 2019, quando lo studente di Princeton Xiyue Wang, imprigionato in Iran, venne scambiato con il ricercatore Masoud Soleimani, detenuto negli Usa. Alla Casa Bianca c’era Donald Trump – che, per così dire, tornerà a spadroneggiare tra pochi giorni – e il negoziato venne condotto da un team di diplomatici svizzeri.
IL CASO ABEDINI, in tutto questo, appare però più complicato: la red notice nei suoi confronti è stata emessa dagli Stati uniti il 13 dicembre e l’uomo è stato preso all’aeroporto di Milano-Malpensa il 16. La decisione, pressoché obbligata, di arrestarlo e poi di tenerlo in carcere è stata presa sulla base di un affidavit dell’Fbi e solo nel pomeriggio di ieri è arrivata la richiesta di estradizione da parte degli Usa. Adesso il procuratore generale della Corte d’appello competente, quella di Milano, dovrà produrre una requisitoria scritta sulla vicenda, poi, nel giro di dieci giorni, dovrà tenersi un’udienza in seduta camerale per stabilire se ci sono o no i requisiti per la consegna a Washington del ricercatore. La decisione finale, infine, spetta al ministero della Giustizia. Intanto, già all’inizio della prossima settimana, l’avvocato italiano di Abedini, Alfredo De Francesco, presenterà il suo ricorso contro la convalida dell’arresto, nel tentativo di ottenerne l’uscita dal carcere di Opera dove è attualmente detenuto. «Dall’analisi dei documenti in mio possesso, la posizione del mio assistito risulta molto meno grave di quanto può sembrare. Lui respinge le accuse e non riesce a capire i motivi dell’arresto», dice De Francesco, annunciando anche che si opporrà alla richiesta di estradizione.
SU TUTTO QUESTO incombe anche l’apertura di un fascicolo «modello 45» (senza indagati né ipotesi di reato) della procura di Milano, che, per cominciare, ha intenzione di focalizzarsi sulle modalità con cui la digos ha prelevato l’uomo a Malpensa, ma non è escluso che si deciderà di approfondire anche gli eventuali profili penali specifici legati alle sue attività. Cioè se ci sono motivi per indagarlo anche in Italia. Naturalmente i tempi della macchina giudiziaria non sono quelli della diplomazia e l’obiettivo italiano resta quello di riportare Cecilia Sala a casa a prescindere dagli sviluppi dell’affaire Abedini, che potrebbe andare per le lunghe. Non sarà facile: le autorità iraniane, nei giorni intorno a Natale, hanno espresso formale protesta ai diplomatici di Roma per quello che ritengono essere un arresto «ingiusto e ingiustificato», una posizione che in ogni caso ha un suo peso sulla trattativa diplomatica.
È SOPRATTUTTO per questo motivo che il ministro degli Esteri Antonio Tajani continua a predicare la massima calma e la più assoluta prudenza, anche perché le accuse verso la reporter sono ignote persino al governo italiano – che, come da stringata nota di palazzo Chigi, «segue con costante attenzione la complessa vicenda» – e si attende che l’avvocato della giornalista possa averne notizia quanto prima. «Cecilia Sala sta bene e il governo lavora con discrezione per riportarla presto a casa», ha scritto Tajani su X. Quanto presto, però, ancora non si può dire.
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