Cosa ci dice la crisi dei telegiornali nazionali (tranne il Tg La7)

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La  biografia professionale di Cecilia Sala, la giovane reporter presa in ostaggio dai pasdaran iraniani e ancora trattenuta nelle carceri di Teheran, ci dà una chiave di lettura della progressiva riduzione dei telespettatori dei telegiornali sulle grandi reti nazionali. I dati appena diffusi dall’Agcom parlano di una progressiva contrazione delle testate dei due principali gruppi televisivi del paese, Rai e Mediaset, mentre in controtendenza, fra i network censiti, c’è solo il notiziario di La7, la rete corsara che sta rimpinguando la sua nicchia di ascoltatori, che ha ormai superato la fatidica soglia del 5%. Ma, eccezione a parte per il Tg di Enrico Mentana, che rimane in ogni caso in un ambito ancora limitato, i grandi numeri non sembrano lasciare spazio a dubbi: siamo nel pieno di una vera e propria transizione epocale, che ci sta conducendo in un’infosfera, come si dice oggi, in cui la tv generalista, quella con i palinsesti cadenzati da orari fissi, tende a seguire la linea di caduta naturale della popolazione più anziana, mentre le nuove generazioni sono sempre più utenti di linguaggi quale quelli praticati appunto da Cecilia Sala con i suoi podcast e una presenza costante sui social.

Al netto di errori e furbizie che non mancano certo nella gestione di queste testate, quanto sta avvenendo ha una portata di ben altra natura che non la semplice ondata politica che si è impossessata dei tg. Brutalmente potremmo sintetizzare il tutto con l’espressione per cui chi muore era uno spettatore dei Tg e chi nasce non incontrerà mai i palinsesti della tv generalista. In particolare questa constatazione vale per gli spazi dell’informazione, in cui affiora con evidenza un modo del tutto nuovo di intendere e usare questa materia. 

Ognuno di noi tende inevitabilmente a essere contemporaneamente consumatore e produttore di flussi informativi, di quei segni e sogni, potremmo dire, che alimentano la nostra vita in maniera ormai totalizzante, che ci portano a non sottostare più a orari o appuntamenti prestabiliti, ma a rifornirci lungo tutte le 24 ore della nostra giornata di aggiornamenti e integrazioni delle notizie che consideriamo essenziali per la nostra attività relazionale. Un comportamento che per altro non dovrebbe stupirci, visto che lo abbiamo osservato e commentato già da vari lustri nello scacchiere statunitense, dove quotidiani e reti televisive sono da almeno 10 anni all’inseguimento spasmodico di quei cosidetti delfini, le figure sociali emergenti che incarnano le nuove tendenze, secondo la leggenda del Censis.

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In un libro di un paio di anni fa, che ha documentato lucidamente questa trasformazione – “Mercanti di Verità”, di Jill Abramson (Sellerio Editore) – l’ex direttrice del New York Times, ripercorrendo l’evoluzione del sistema giornalistico americano nei primi due decenni del nuovo secolo, spiega dettagliatamente come ormai la trasformazione vede le redazioni, sia della carta stampata che dei network nazionali, scomporsi in una miriade di flussi digitali destinati individualmente ad ogni singolo utente, che viene individuato, raggiunto e bersagliato con menù di contenuti altamente profilati.

Dalle tre grandi emittenti storiche – Cbs, Nbc, Abc- fino ai canali all news – Cnn e Fox su tutti – per arrivare alle testate storiche come appunto il New York Times, il Washington Post,il Wall Street Journal, la fabbrica editoriale è basata su un motore altamente digitalizzato, con potenti infrastrutture di data center e propri sistemi di intelligenza artificiale che raccolgo ed analizzano, permanentemente, i dati degli utenti che vengono poi declinati con originali ed esclusive combinazioni di news del momento. Il modello di tutto questo è Spotify, il motore che produce compilation musicali per ognuno dei suoi 250 milioni di abbonati. Proprio la distanza siderale che separa la news room, chiamiamola così, del Tg1 o del Tg5, dallo streaming profilato di Spotify ci dà la misura della inevitabile decomposizione che sta caratterizzanto le grandi ammiraglie dell’informazione televisiva nazionale.

In particolare il problema riguarda il servizio pubblico, la cui ancora perdurante centralità sul mercato complessivo televisivo non può oscurare la sua irrimediabile emarginazione rispetto alle figure portanti di questo mercato che coincidono con quelle ultime cinque  generazioni che combinano le residue esperienze di fruizione di media generalisti, come la tv, i concerti o il cinema, con una riscrittura delle proprie emozioni sui social, generando una materia prima di valore inestimabile quale è quella gamma di infiniti gradi di emozioni e commenti che vengono diffusi nella rete. Questa materia prima rappresenta il vero nuovo petrolio che non è più identificabile, come si diceva solo qualche anno fa, nei dati, ma nel rimbalzo che ogni singolo contenuto produce con il nostro sistema neurale. Parliamo di un mondo del tutto sconosciuto agli apparati del servizio pubblico. Un’esclusione che impedisce di comprendere dove abbia perso la connessione con la realtà. Proprio Cecilia Sala dimostra questa sorta di mutismo digitale della Rai. Infatti lei nasce proprio nell’ambito di trasmissioni della tv generalista, le sue prime comparsate avvengono nelle trasmissioni di Michele Santoro, e poi la pratica dei nuovi linguaggi on demand, la portano irrimediabilmente lontano dalle grandi cattedrali dell’audience. Più che rimpallarsi le responsabilità sulla caduta degli ascolti a Viale Mazzini dovrebbero chiedersi cosa fare per diventare coerenti e adeguati per diventare la casa di Cecilia Sala e di futuri giornalisti come lei.



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