Italians, Gianluca Pascucci e l’evoluzione dinamica della pallacanestro – Federazione Italiana Pallacanestro – Italians, Gianluca Pascucci e l’evoluzione dinamica della pallacanestro

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Italians, Gianluca Pascucci e l’evoluzione dinamica della pallacanestro – Federazione Italiana Pallacanestro
















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28 Dicembre 2024

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Nel corso di questo mese, nei viaggi fatti in giro per il mondo con Italians, abbiamo avuto modo di osservare da vicino i percorsi professionali di alcune figure della nostra pallacanestro, personaggi che da tempo vivono lontano dal Paese di nascita ma conservano forti legami con l’Italia e con quella che è stata la loro formazione. Gianluca Pascucci non fa eccezione, in questo senso. Entrato nel mondo della palla a spicchi negli anni ’90 inizialmente come allenatore – nelle giovanili prima e poi, come assistente, in prima squadra – a Pesaro, dal 2012 Pascucci è a tempo pieno e a tutti gli effetti parte del mondo NBA.

Quell’America già “assaggiata” nei primi anni 2000, con l’esperienza da Director of International Scouting degli Houston Rockets affiancata all’attività dirigenziale con la Scavolini, dopo un quadriennio a Milano è arrivato il definitivo volo oltre oceano. Prima destinazione Houston per lavorare con i Rockets e con l’affiliata di G-League, i Rio Grande Valley Vipers; esperienze a cui hanno fatto seguito gli approdi a Brooklyn – Director of Global Scouting tra il 2016 e il 2019 -, Minneapolis (assistente GM dei Timberwolves e GM degli Iowa Wolves dal 2019 al 2022), Chicago (nell’area scouting dei Bulls tra settembre 2023 e luglio 2024) fino a giungere ai Detroit Pistons, per i quali è Senior Director of Global Scouting dallo scorso luglio.

Un cursus honorum di altissimo livello, una successione di responsabilità professionali diverse tra loro ma che hanno in comune due costanti nel metaforico bagaglio costantemente al suo fianco: “l’etica del lavoro e la professionalità“, ci dice. “Sono cose che non mi hanno mai abbandonato, sin dai tempi in cui allenavo nel settore giovanile. L’idea era che tutto il rispetto e la dimensione di quello che può essere allenare dei ragazzini del settore giovanile, di trattare quell’allenamento come se fosse una vera prima squadra. Sto parlando da allenatore, ma l’approccio all’insegna di etica del lavoro e professionalità era presente in quei momenti come lo è adesso. È chiaro che uno deve cercare di elevare il proprio livello ovunque vada, in base a delle nuove sfide, ma io affrontavo quegli allenamenti come se fossi già l’assistente della prima squadra, come concetto“. Un’elasticità mentale importante, anche per affrontare nuovi ruoli e differenti incarichi: “Una delle cose che all’inizio è stata molto apprezzata la prima volta che sono arrivato a Houston – alla mia seconda esperienza con loro – era questa versatilità di ruoli. Avevo la prospettiva dell’allenatore, poi ero diventato contestualmente dirigente e scout. Questa possibilità di avere diversi punti di vista era una delle cose più intriganti che cercavano e chiedevano“.

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Tanti ruoli diversi vissuti in un mondo, quello del basket, cambiato più volte nel corso degli anni: “Quando iniziai una delle mie prime responsabilità era non soltanto quella di vedere il maggior numero di partite dal vivo, ma di collezionarne il più possibili, anche con le videocassette. Non vi era la possibilità di streaming o di piattaforme come Synergy e soprattutto non c’era la facilità, da parte degli americani, di viaggiare per il mondo per vedere giocatori. Credo che il mondo della pallacanestro sia una delle industrie più dinamiche che ci possano essere. Le cose vanno così velocemente – non solo dal punto di vista tecnologico ma proprio per il modo di pensare – e c’è una grande competizione che porta il tutto a spingere verso un miglioramento continuo”. Da Pesaro e Milano all’America, ma non è detto che la nazionalità di provenienza giochi un ruolo determinante: “Quando le professionalità all’estero sono così alte, meritocrazia e livello di preparazione sono fondamentali per raggiungere determinati livelli”.

All’epoca“, ci dice Pascucci, sottolineando come non sia sempre così, “il fatto di venire dall’Europa e portare un punto di vista in un ambiente lavorativo come quello dei Rockets, molto aperto a nuove idee out-of-the-box, credo possa essere stato d’aiuto, ma al di fuori di quell’esperienza particolare credo che quando si tratta di lavoro abbiamo tutti la stessa nazionalità. In un mondo globale come quello di oggi, specialmente nella pallacanestro dove la globalità è eccellenza, abbiamo tutti un solo passaporto“. Globalità che è un valore fondamentale della NBA odierna, tra le prime realtà sportive a insistere su questo concetto decenni addietro: “Il fatto che la NBA abbia lavorato su questo da subito, in modi che magari non erano intellegibili ai tempi ma che erano contraddistinti da una visione, ha portato poi all’allineamento di diversi aspetti e all’esplosione della Lega stessa. Lo sviluppo internazionale è legato a questo: le generazioni successive alle nostre sono cresciute avendo la possibilità di vedere le partite NBA e quindi l’idea, la possibilità, il pensiero di potere emulare gli atleti era quasi lì, a contatto”.

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Credo che questo sia stato uno dei motivi fondamentali”, continua Pascucci. “La NBA da questo punto di vista sta facendo cose straordinarie, il resto ce l’abbiamo messo anche noi europei con la nostra scuola di pallacanestro che è cresciuta, migliorata negli anni. Se il giocatore ha successo c’è poi più possibilità di emulazione, lo stiamo vedendo in Italia con il tennis”. Dopo tanti anni all’estero, ricchi di esperienze, cosa resta del bagaglio iniziale? “Quando qualcuno si sviluppa negli anni, non solo caratterialmente ma anche dal punto di vista lavorativo, all’inizio pone delle basi che poi si evolvono differentemente”, ci risponde. “Le mie esperienze fanno parte del bagaglio iniziale, e mi hanno poi permesso di utilizzare e modellare quanto, nel corso degli anni, sono diventato come professionista”.

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Non sempre ci si rende conto di quanto si è fatto in carriera“, conclude riflettendo su possibili sogni e obiettivi futuri. “Devo dire che vincere sarebbe qualcosa forse non considerabile come un sogno. In carriera ho vissuto tante esperienze, ma a parte un titolo cadetti con Pesaro e uno in G-League con i Vipers non ho mai vinto qualcosa e sento che un po’ mi manca l’ebbrezza della vittoria, la capacità che questa ha di suggellare il lavoro e i sacrifici fatti negli anni, ma non so se è considerabile come un sogno. A livello assoluto, avendo anche parlato con gente che le ha fatte, credo che il sogno sarebbe partecipare alle Olimpiadi, qualcosa di incredibile. Che tutti gli sportivi, individuali o di squadra, hanno come aspirazione”.

                                                                                                                                   Ennio Terrasi Borghesan

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