La nostra Costituzione dedica al lavoro la posizione d’onore. “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, recita in apertura l’articolo primo. Una Repubblica fondata sul lavoro e non su privilegi dinastici o su una pervasiva presenza dell’amministrazione statale, ma sulla partecipazione dei cittadini non solo alle scelte collettive tramite la gestione democratica dei poteri pubblici, ma anche attraverso il proprio contributo alla crescita collettiva.
Fu Aldo Moro a richiedere questo riferimento al lavoro, come qualificazione dell’aggettivazione “democratica”, proprio nel nome di quel necessario fondersi delle culture cristiana, socialista e liberale, che dovevano essere alla base della nuova Repubblica.
Il lavoro dunque fu posto dai Padri Costituenti come elemento identitario della nostra democrazia ed elemento motore di un Paese che oltre la ricostruzione doveva delineare un modello di sviluppo in cui coesione e crescita non solo non erano fra loro in conflitto, ma erano fra loro reciprocamente fondanti una democrazia partecipativa.
C’è da domandarsi se questi principi siano tuttora alla base della vita attuale della Repubblica o se il lavoro sia ridotto a statistica in una dinamica politica che lo considera un problema sociale e, in una dinamica invece economica, niente più che un costo marginale. Del resto il lavoro è molto cambiato in questi ottant’anni, così come è cambiato il Paese. Nel 1951 l’attesa di vita di questa nostra Italia era di 64 anni, oggi è in media di 84 anni, con un innalzamento quindi di venti anni in una sola generazione.
Nel 1951 l’età media era nel nostro Paese di 32 anni, oggi siamo almeno a 16 anni oltre, con una media in quel tempo di un bambino ogni anziano, mentre oggi ad ogni nuovo nato corrispondono cinque ultra sessantacinquenni.
In una Italia così rapidamente cresciuta, ma anche così rapidamente invecchiata, il lavoro come icona di riferimento della stessa unità del Paese si è frantumato in una varietà di attività sempre meno leggibili ed interconnesse fra loro.
La “fabbrica” – l’acciaio di Taranto, l’automobile di Mirafiori, la chimica di Marghera- che dopo l’uscita dal mondo contadino, rappresentava la modernità del lavoro, è oggi il simbolo stesso di una crisi profonda dell’intera società, che per un verso non riesce a trovare giovani tecnici per muoversi verso nuove forme di lavoro e per altro vede -in questo 2024 che si sta chiudendo- raggiungere l’insostenibile record di mille morti sul lavoro, a testimonianza di una povertà del lavoro che ancora esiste e rivendica ascolto. Mai come oggi, in questo contesto così sfuggente, diviene cruciale la scuola, per ricostruire innanzitutto una cultura del lavoro, come elemento fondante di una Repubblica che voglia essere effettivamente democratica, come prescritto lucidamente nella nostra Costituzione.
Innanzitutto bisogna ripristinare il principio che ogni lavoro deve godere di pari dignità e quindi di pari tutela, tutela che deve essere ancor più garantita proprio perché oggi la mobilità del lavoro è molto più alta che in passato. In Italia giustamente riconosciamo una Stella al Merito per i lavoratori, con particolari meriti, che siano rimasti ininterrottamente al servizio della stessa impresa per almeno venticinque anni.
Esperienza questa ormai inenarrabile ai nostri figli, che considerano la singola attività lavorativa una tappa nella costruzione di un curriculum personale, in cui premiano più i cambiamenti che la continuità. Questi cambiamenti, connessi del resto con una trasformazione tecnologica continua, hanno bisogno di formazione a sua volta continua e mirata, che le stesse scuole e università pubbliche stentano a seguire, tanto che le maggiori imprese, ed oggi anche molte aziende intermedie, hanno creato loro strutture interne di formazione, con un fiorire di academy, che debbono ormai essere considerate parte della stessa struttura educativa di un Paese, che voglia mantenere un profilo produttivo avanzato.
Egualmente lo sviluppo produttivo oggi è necessariamente legato alla ricerca, che diviene essa stessa parte della produzione della nuova industria che vive di innovazione continua e quindi anche questi lavori divengono cruciali per uno sviluppo prolungato ed equo, in un interscambio sempre più necessario fra strutture pubbliche e private, generatore di una osmosi di competenze e di responsabilità, che diviene fondante per una nuova cultura del lavoro.
Formazione e ricerca come pilastri di una trasformazione della nostra economia, ma nel contempo della nostra società, richiedono una scuola di base che deve dare a tutti più consapevolezza di appartenenza ad una società in trasformazione e nel contempo più strumenti per affrontare, gestire in pace e vivere insieme questa trasformazione, e scuole superiori ed università che permettano di coniugare sviluppo e coesione in un Paese che necessariamente deve essere aperto ed inclusivo, per non rinsecchirsi su sé stesso.
E quindi proprio il lavoro torna ad essere una cartina di tornasole per queste nostre democrazie affaticate e per una Europa che deve dimostrare ancora una volta di esistere come riferimento fondante per la pace e lo sviluppo, in un mondo che sembra rinchiudersi nuovamente all’insegna di nuovi sovranismi, che sono in verità solo la riprova di nuove debolezze e vecchie paure.
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