Roger Abravanel ci ha abituato ad andare controcorrente, forte della sua capacità di analisi. Anche di fronte alla crisi del settore automobilistico il manager e scrittore non si smentisce e lo spiega in questa intervista a MF-Milano Finanza. «Basta ipocrisie però», attacca.
Domanda. Abravanel, nel saggio «Le grandi ipocrisie sul clima» che ha scritto con Luca D’Agnese sostenete che l’auto elettrica è assolutamente la chiave per la transizione energetica. Perché?
Risposta. L’auto elettrica attacca un settore che produce il 25% delle emissioni. Accoppiata alle fonti rinnovabili vuole dire attaccare il 60-70% delle emissioni di C02. Ha fatto passi da gigante rispetto al secolo scorso quando era brutta e nessuno la voleva comprare (15 milioni vendute nel 2023) ma la transizione è però 10 anni indietro rispetto alle rinnovabili. Le auto elettriche sono ancora troppo care per essere una soluzione della mobilità di massa e i consumatori hanno problemi con la bassa autonomia delle batterie e con la difficoltà di accedere alla ricarica veloce.
D. Quindi siamo ancora molto indietro.
R. Il «triangolo della sostenibilità» (società civile-politica e imprese innovative che agiscono assieme in modo virtuoso) è al lavoro per risolvere queste sfide. In particolare, le imprese automobilistiche stanno investendo pesantemente in nuovi modelli elettrici e in nuove tecnologie per esempio nelle batterie (che rappresentano il 40% del costo della vettura). Le batterie a ioni di litio potranno scendere sotto i 110 dollari per kwh che rendono le Bev (battery electric vehicle) competitive con l’endotermico. Poi gli Stati e le imprese private prevedono investimenti per l’accesso da 1 milione di colonnine nel 2020 a 200 milioni nel 2050 con 1,3 triliardi di dollari di investimenti.
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D. Sta però nascendo un vero e proprio braccio di ferro tra l’Europa che vuole il blocco delle vendite di auto a motore endotermico al 2035 e i paladini dell’auto (politici, sindacati, imprenditori) che dicono che l’elettrico è la causa dei problemi dei vari Volkswagen, Stellantis e Northvolt. Aggiungono anche che tutta questa rivoluzione non aiuta il pianeta perché le auto elettriche alimentate da energia fossile non riducono la C02. Anche questa è ipocrisia?
R. La prima ipocrisia è quella della Ue che chiede lo stop alle vendite di motore endotermico al 2035 ma fa poco o nulla per favorire la trasformazione in termine di regole smart e incentivi al consumo. In Europa l’auto elettrica è decollata, siamo al 20% del mercato (12 di Bev e 8 di Phev, ibride plug in, ndr) il doppio degli Usa (9%) ma meno della metà della Cina (53%).
D. Un miracolo?
R. No. Ciò è avvenuto grazie a incentivi all’acquisto (da noi i sussidi alla rottamazione) e fondi pubblici limitati per le colonnine che oggi sono 570 mila conto 1,8 milioni in Cina. Ma ora gli incentivi sono praticamente esauriti e mancano le colonnine di ricarica, soprattutto nel Sud Europa. In Scandinavia si va dal 70% di auto elettriche della Svezia al 95% della Norvegia. In Francia e Germania 26-27%. In Italia e Spagna circa il 10%. In Sud Europa mancano i condomini con box dove poter ricaricare le auto notturne. Le ricariche negli spazi pubblici sono poche e carissime. La Ue prevede un «modello di mercato» per raddoppiare il numero di colonnine. Chi paga i costi delle colonnine, che nella fase di avvio del mercato sono molto alti, sono solo i consumatori di auto elettriche. Per cui si crea un circolo vizioso di alti costi, poche auto elettriche, poche colonnine e il mercato non parte.
D. Nel resto del mondo che succede?
R. Tra il 2009 e il 2023 il governo cinese ha investito 231 miliardi di dollari in sussidi all’industria di motori elettrici tra sussidi per acquirenti di auto e investimenti in colonnine. La Ue sta invece aggiungendo a politiche non smart una spaventosa eurocrazia per definire le metriche Esg con cui devono confrontarsi banche e imprese. Questo atteggiamento sta ottenendo una reazione di rigetto nei confronti della emergenza climatica.
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D. Lei sostiene che sono ipocriti anche i difensori dell’auto a motore termico. Perché?
R. Le imprese automobilistiche europee hanno capito in ritardo che la mobilità elettrica è inevitabile e si stanno attrezzando con grandi investimenti in nuovi modelli. Ma tutto ciò avviene in un momento delicato del mercato europeo dell’auto. Da un lato è diminuita la domanda, dall’altro ci sono problemi specifici delle case costruttrici, si pensi a quelli che ha Volkswagen in Cina. Stellantis è andata in crisi con i concessionari in Usa perché ha alzato troppo i prezzi. Northvolt, il campione europeo delle batterie, è fallita per errori plateali di gestione. Se c’è un denominatore comune a queste crisi è che si vende troppo poco elettrico, non troppo. I falsi amici dell’auto sono ipocriti perché pensano che togliere il blocco del 2035 risolva questi problemi.
D. In molti sostengono che ci mettiamo totalmente nelle mani dei cinesi.
R. I cinesi stanno puntando a trasformarsi da grande appestatore di C02 del pianeta a campione della transizione energetica non per ragioni morali ma di business, sfruttando la disruption dell’emergenza climatica. Sono già i leader mondiali nei pannelli solari e puntano alla leadership globale nelle batterie (Byd è il numero uno nelle auto elettriche e nelle batterie).
D. Non abbiamo possibilità di migliorare la situazione?
R. Nel 2035 la maggioranza delle auto che si venderanno in Cina saranno Bev. I cinesi dominano il settore a livello globale, battendo perfino i giapponesi, non facendo auto a basso costo ma belle e di ottima qualità industriale (la Tesla che si vende in Italia è fatta in Cina). L’Europa può avere giustamente tentazioni protezionistiche, ma alla fine deve competere con i cinesi come ha fatto con i giapponesi quando sono diventati imbattibili grazie al just in time.
D. Anche gli italiani sono molto preoccupati.
R. Fanno bene ad essere preoccupati ma l’elettrico c’entra ancora poco visto che siamo i fanalini di coda d’Europa. Perdiamo posti di lavoro nelle fabbriche perché Stellantis da tempo sposta la produzione nei Paesi a basso costo, anche dalla Francia e non solo dall’Italia. La gamma ex Fiat poi sull’elettrico è in ritardo perché Marchionne non credeva nell’auto elettrica. Ma il vero problema non sono i posti di lavoro nelle fabbriche ex Fiat che sono poca cosa rispetto ai 150 mila posti di lavoro persi in quasi mezzo secolo. Il problema sono i high value jobs di progettisti di piattaforme elettriche che si stanno spostando da Torino a Parigi e di cui nessuno parla. Bisognerebbe puntare sui componentisti come Brembo e Pirelli – freni e pneumatici ci sono anche nelle auto elettriche – che hanno un alto contenuto di r&s (e tanti high value jobs ) e preoccuparsi meno dei low value jobs dell’assemblaggio.
D. E gli Usa con Trump cosa faranno?
R. Hanno un leader globale come Tesla che semmai sarà rafforzata dai dazi alle auto cinesi ed europee che probabilmente metterà Trump. Quanto alla transizione all’elettrico che ha dimostrato una grande accelerazione grazie all’Ira (Inflation reduction act) di Biden, con Trump avrà probabilmente un rallentamento. In questa situazione saranno vincenti quei produttori, come Tesla e Byd, che già oggi fanno profitti con l’elettrico. (riproduzione riservata)
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