Nuova fiscalità per l’impresa sociale: chi ci guadagnerà?

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Chi scarterà il “bellissimo regalo” rappresentato dalle autorizzazioni europee in materia di fiscalità per il Terzo settore e soprattutto per l’impresa sociale? Sarebbe infatti imminente l’arrivo di importarti sgravi sugli investimenti in imprese sociali dopo lunghi anni d’attesa durante i quali il settore ha assunto una nuova conformazione.

Da una parte dunque prosegue il processo di ristrutturazione della cooperazione sociale, grazie ad aggregazioni e fusioni che determinano una metamorforsi organizzativa generando conglomerati imprenditoriali multi prodotto e servizio di scala extra locale che archiviano definitivamente l’era del “piccolo è bello”.

D’altro canto si afferma sempre più numerosa una generazione di imprese sociali non cooperative e di capitali – srl principalmente – che in alcuni casi è fatta da vere e proprie startup fondate da imprenditori non necessariamente legati alla cultura nonprofit e in altri consiste invece in veicoli promossi dalle stesse cooperative sociali per gestire in modo più “agile” investimenti infrastrutturali e tecnologici a più elevata intensità di capitale. In questo quadro di eterogeneità crescente che inevitabilmente sollecita le tradizionali forme di rappresentanza e coordinamento del settore, il “regalo” degli incentivi fiscali sugli investimenti sembra destinato soprattutto agli attori dell’ecosistema filantropico – finanziario che negli ultimi anni si è dotato di una longa manus rappresentata da società di consulenza, enti di ricerca, strutture di incubazione, ecc. con il compito di facilitare la convergenza tra domanda e offerta di risorse, oltre che di alimentare la narrazione sull’innovazione sociale e i suoi impatti.

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Il problema è che guardando sia ai dati hard su erogazioni, finanziamenti e investimenti oltre al mai troppo trascurato sentiment degli operatori del settore, il quadro di sviluppo dell’imprenditoria sociale nostrana si caratterizza, nel suo insieme, per una situazione, almeno apparente, di “calma piatta”. In un quadro di relazioni giudicato positivamente da tutti gli attori in gioco, la dimensione investing, cioè quella che prova a costruire nuovi sistemi sociali ed economici e non solo a fare manutenzione dell’esistente, fatica ad affermarsi al di fuori di una nicchia caratterizzata da buone pratiche ormai ben conosciute, aree territoriali già ben dotate, settori dove il ritorno dell’investimento è misurabile. Ma queste nicchie organizzative, territoriali e settoriali rischiano di essere sempre più “esclusive” rispetto a un’imprenditoria sociale e ai problemi che prova a risolvere che evolve non sempre seguendo le esigenza attese dagli investitori. Tende quindi a generarsi un divario tra domanda e offerta che preclude o depotenzia impatti trasformativi sempre più necessari. Tutto questo nonostante si affermi che siamo nell’era del “filantropocene” dove le fondazioni ambiscono a guidare la just transition ambientale e sociale; dei fondi d’investimento che apportano capitale di rischio valorizzando come ritorno atteso anche l’impatto sociale; del credito bancario sostenuto da garanzie pubbliche che consentono di andare oltre il finanziamento corrente; dei fondi mutualistici cooperativi che intervengono sempre più spesso per “ripristinare il sistema” a fronte di fallimenti del mercato attraverso il modello cooperativo governato da lavoratori e comunità locali.

Per non parlare delle piattaforme digitali che intercettano risorse – donative ma anche di finanza ed equity – da parte di folle (crowd) che possono assumere la conformazione di vere e proprie comunità d’investitori dal basso. Forse, considerando tutto questo, il regalo non è solo per questi attori.

Il versante dell’offerta è già ben strutturato e in grado di interagire dando forma, grazie anche ai nuovi incenti, a inediti funding mix tra l’alto e il basso (ad esempio crowdfunding integrato da risorse filantropiche) e tra diversi apporti di risorse (ad esempio contributi donativi che compensano mancati ritorni sugli investimenti in equity o che abbassano i tassi d’interesse bancari). Per questi soggetti l’autorizzazione europea rappresenta quindi il completamento di un’architettura di offerta già in buona parte costruita.

È, o dovrebbe essere, anche il versante della domanda, cioè delle imprese sociali, un importante beneficiario. Questi vantaggi fiscali possono rappresentare lo stimolo giusto per elaborare, o tirare fuori dai cassetti, progetti di sviluppo messi da parte o solo timidamente attuati come sperimentazioni perché alle prese con una complessa fase di avvio o di ristrutturazione interna, o anche in attesa di queste norme europee che mai arrivavano. Tutto questo negoziando da una posizione di maggiore proattività con gli apportatori di risorse, magari ricapitalizzandosi o ristrutturando i patrimoni a tal fine. Servono quindi progetti, ma anche capacità e sensibilità giuste per riconoscere nel pacchetto proveniente da Bruxelles un vero e proprio regalo da scartare appena consegnato.

Foto: cooperativa sociale Eureka (Archivio VITA)

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