Meloni d’inclusione. Il governo mette più soldi sull’AdI (l’ex RdC)

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La legge di Bilancio allarga la platea e l’entità dell’Assegno d’inclusione e del Sfl con un aumento di spesa di circa 600 milioni. Dopo il taglio del cuneo per i lavoratori, la strategia della premier e Giorgetti è chiara: redistribuzione per contenere l’impatto dell’inflazione


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C’è una novità importante nella legge di Bilancio, di cui però si parla poco, perché l’opposizione non ha interesse a evidenziarla e la maggioranza ha difficoltà a rivendicarla. È l’ampliamento della platea e dell’importo dell’ex Reddito di cittadinanza (Rdc), riformato dal governo Meloni e suddiviso in Assegno di inclusione (Adi) e Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl). Con un emendamento alla legge di Bilancio, che verrà discussa oggi al Senato dopo l’approvazione alla Camera, sono state apportati delle modifiche che faranno aumentare i beneficiari di oltre 100 mila nuclei familiari e incrementare l’entità del sussidio, per una spesa che sarà di circa 600 milioni di euro in più all’anno.

Il governo Meloni ha abolito il Rdc, sostituendolo con l’Adi destinato ai nuclei cosiddetti “inoccupabili”. Le condizioni di accesso reddituali e patrimoniali – a parte qualche modifica più estensiva dell’Adi, ad esmpio il criterio meno restrittivo di residenza per gli extracomunitari – sono rimaste le stesse del Rdc. Mentre il Sfl per gli “occupabili” prevede un importo di 350 euro al mese, per massimo 12 mensilità, condizionato alla partecipazione di un programma di formazione. La legge di Bilancio cambia diversi parametri.

Per la prima volta dall’istituzione del Rdc nel 2019 vengono alzate sia la soglia di accesso sia il sussidio: il tetto Isee viene aumentato da 9.360 euro a 10.140 euro, mentre l’integrazione al reddito passa da 6.000 a 6.500 euro all’anno (da moltiplicare per la scala di equivalenza). Il Rdc/Adi è una delle poche misure di spesa sociale che non prevede un adeguamento all’inflazione, come invece ad esempio accade con le pensioni o con l’Assegno unico per i figli. Ciò ha comportato, dopo diversi anni di forte inflazione, sia una perdita di potere d’acquisto per chi ha continuato a percepire l’Adi sia una perdita totale del sussidio per chi ha visto incrementare il reddito nominale, uscendo così fuori dai parametri di accesso.

Insomma, c’è stato un fiscal drag che ha colpito soprattutto i poveri del nord dove, a causa del costo della vita più alto, le soglie di povertà sono più elevate. Secondo gli ultimi dati dell’Istat la povertà assoluta nel 2023 è rimasta più o meno costante, ma è diminuita al Sud (scendendo sotto i livelli del 2021) ed è aumentata al nord (soprattutto il nord-ovest). Tanto che attualmente ci sono più poveri al nord (42,6%) che nel Mezzogiorno (38,7%). Il problema, come detto, è dato da soglie nominali uguali su un territorio nazionale così diverso. La conseguenza, come era già emerso in diversi studi sul Rdc, è che molti poveri del nord non percepiscono aiuti mentre ne beneficiano molti non-poveri del sud.

L’ampliamento dei criteri, deciso dal governo, ovviamente non aggiusta queste distorsioni ma fa rientrare molti nuclei familiari che erano esclusi dall’Adi soprattutto dopo anni di alta inflazione. Secondo la relazione tecnica del provvedimento, la riforma automatizza alcune informazioni facendo rientrare circa 15 mila nuclei che avevano diritto ma a cui venivano respinte le domande Adi per errori di compilazione e in più aggiunge altri 85 mila nuclei tra i percettori grazie all’allargamento dei criteri di accesso. Le famiglie beneficiarie passeranno così nel 2025 da circa 660 mila a circa 750 mila, con un costo aggiuntivo di oltre 500 milioni annui (da 5,15 a 5,7 miliardi).

In maniera analoga per il Sfl – che non ha finora funzionato bene – si prevede un incremento di circa 25 mila beneficiari (da 85 a 110 mila) e un aumento dell’importo mensile da 350 a 500 euro, che può essere prorogato per un altro anno (due in totale). La spesa aggiuntiva, rispetto alla legislazione vigente è di circa 100 milioni di euro (da 513 a 606 milioni), per un totale – tra Adi e Sfl – di circa 600 milioni in più.

Le risorse stanziate non sono aggiuntive, ma provengono dallo stesso fondo visto che le due misure sono costate meno del previsto. Ma non era affatto scontato che il governo Meloni, che si è contraddistinto sul piano comunicativo per il contrasto al Rdc e ai sussidi, facesse una scelta del genere. Avrebbe potuto usare questo “tesoretto” per abbassare le tasse al ceto medio-alto (sopra i 40 mila euro di reddito annuo), quello più colpito dal fiscal drag ed escluso da ogni sgravio, come chiede ad esempio il vicepremier Antonio Tajani.

In realtà si vede una strategia di fondo, perseguita da Meloni e dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che dall’inizio della legislatura hanno puntato a difendere il ceto medio-basso dall’inflazione. La misura principale del governo è stata la decontribuzione a favore di circa l’80% dei lavoratori dipendenti, ora resa strutturale e ampliata come taglio dell’Irpef con questa manovra, che costa circa 18 miliardi. L’aumento di 600 milioni della spesa a favore dei più poveri, seppure non sbandierato, va nella stessa direzione.

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E probabilmente è proprio grazie a queste scelte redistributive (di sinistra?), che hanno aumentato la progressività del sistema fiscale, insieme a un andamento positivo del mercato del lavoro, che dopo due anni di governo Giorgia Meloni mantiene consensi così alti nonostante una crescita del pil sempre più flebile.

 





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