le soglie del sacro e del cinema

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L’apertura della Porta Santa per il XXV Giubileo – detto Giubileo della Speranza – è avvenuta nella sera del 24 dicembre 2024 in occasione della messa natalizia nella cattedrale di San Pietro a Roma e rappresenta non solo un evento spirituale apicale per i fedeli cattolici, ma anche un momento simbolico per sollecitare riflessioni profonde su temi come redenzione, potere e il rapporto tra sacro e profano. Questo immaginario s’è intrecciato, e continua a farlo, con il linguaggio cinematografico, che nel tempo ha cercato di raccontare le tensioni e le sfumature connesse alla religione, alla Chiesa e alla spiritualità.

L’apertura della Porta Santa è un gesto rituale, crocevia tra liturgia, Storia e ascetismo. L’atto, che avviene tradizionalmente ogni 25 anni, rappresenta l’invito universale alla conversione, al rinnovamento interiore e alla riconciliazione con Dio. La Porta Santa è emblema del confine tra la condizione umana e il divino, un limite che l’uomo può varcare solo attraverso il perdono e la grazia; per chi “crede”, attraversarla significa accogliere il messaggio cristiano nella sua forma più pura, l’idea di un cammino spirituale che conduce alla liberazione dal peccato. Storicamente, l’apertura è carica anche di valenze politiche e sociali: nel contesto contemporaneo è metafora di inclusione, richiama alla necessità di abbattere muri – fisici, culturali, religiosi – per promuovere dialogo, accoglienza e solidarietà. Nel linguaggio del cinema, questa immagine diventa archetipo visivo che ispira interrogativi su Fede, perdono e umanità.

L’apertura della Porta Santa richiama simbolicamente la necessità di guardare oltre i confini della Fede personale e indagare il rapporto tra spirito, potere e società. Il cinema ha affrontato – e continua a affrontare – queste tematiche con profondità e versatilità, offrendo rappresentazioni stratificate, spesso critiche e mai univoche. Il cinema, italiano e internazionale, si confronta con questi temi creando un dialogo complesso e sfaccettato tra la Fede e la società: titolo per titolo, è possibile sviscerare sotto testi e peculiarità stilistiche.

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La porta del cielo e il Cristo proibito

Il sacro può significare salvezza nei momenti di crisi e con questo spirito La porta del cielo (1945) di Vittorio De Sica e Cristo proibito (1951) di Curzio Malaparte esplorano la forza redentrice della Fede in contesti di profonda sofferenza. Realizzato durante la Seconda Guerra Mondiale, il primo titolo unisce realismo e spiritualità, ambientando il dramma umano dei pellegrini in viaggio verso il santuario di Loreto. Analogamente, l’altro film utilizza la figura del Cristo come simbolo di riscatto e vendetta in una società ferita dal conflitto, rivelando la tensione tra il divino e le debolezze umane. Entrambi sottolineano come il sacro possa offrire una speranza universale, ma anche interrogare l’uomo su scelte e responsabilità.

Il film di De Sica nasce prodotto durante l’occupazione tedesca di Roma, sotto l’egida della Santa Sede, che desiderava un’opera capace di infondere speranza e pietà. Girato in gran parte nella basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma, si distingue per un approccio neorealista ante litteram: i pellegrini che intraprendono il viaggio incarnano una coralità umana in cui il sacro s’intreccia al dramma quotidiano. L’interesse risiede nella contaminazione stilistica: da un lato, un’austerità visiva che anticipa il Neorealismo, appunto; dall’altro, una dimensione di sospensione lirica che rimanda alla tradizione melodrammatica nostrana. Il film, pur avendo finalità propagandistiche, riesce a non restare cristallizzato nelle stesse grazie all’autenticità delle interpretazioni e alla direzione empatica del regista.

Cristo proibito è invece l’esordio alla regia dello scrittore Malaparte: il film è una parabola sul perdono e sulla giustizia, ambientata in un piccolo borgo toscano ferito dalla guerra. La storia di Bruno, deciso a vendicare la morte del fratello, si trasforma in un’analisi del conflitto tra legge divina e vendetta terrena. La dimensione estetica è profondamente influenzata dalla fotografia di Gábor Pogány, che utilizza luci e ombre espressionistiche per amplificare la tensione morale. Sapiente è l’uso del paesaggio: le colline e i villaggi sono un palcoscenico simbolico in cui si manifesta il dramma umano interiore. Malaparte mescola il sacro con un realismo aspro, anticipando tematiche esistenzialiste.

In nome del Papa Re, Il pap’occhio e Habemus Papam

Il sacro e il potere: il passaggio dalla critica alla satira comincia quando il cinema si confronta in modo più critico con il potere temporale e spirituale della Chiesa. In nome del Papa Re (1977) di Luigi Magni racconta il conflitto tra la giustizia sociale e l’autorità ecclesiastica nella Roma papalina, umanizzando la figura del prelato e ponendo in discussione l’infallibilità delle istituzioni religiose. Magni ambienta il dramma nel 1867, durante i giorni tumultuosi del Risorgimento, raccontando la crisi di un giudice ecclesiastico che scopre di avere un figlio coinvolto nei moti rivoluzionari. La forza della vicenda risiede nella capacità di umanizzare il conflitto tra i doveri religiosi e il sentimento paterno, resi indimenticabili dalla recitazione di Nino Manfredi. Il fascino del film risiede nell’estetica teatrale e nella capacità di costruire un ritratto intimo di un’epoca storica complessa, utilizzando il sacro come specchio delle tensioni politiche. Magni propone la Storia come teatro morale.

Dalla denuncia si passa alla satira pura con Il pap’occhio (1980) di Renzo Arbore, che, tra ironia e provocazione, mette in discussione il ruolo della religione nella società moderna, spingendo il pubblico a interrogarsi sull’immagine mediatica del papato e sul potere della Chiesa. Arbore realizza una commedia iconoclasta che sfida l’autorità ecclesiastica, mescolando irriverenza e critica sociale. Il film, censurato al tempo per il suo contenuto provocatorio, s’interroga sul ruolo della Chiesa nell’era dei mass media. Il pap’occhio rappresenta un esempio di libertà creativa in un’epoca di forti tensioni tra cultura e potere. L’umorismo grottesco e le trovate visive di Arbore riflettono un approccio anarchico alla narrazione, che ricorda le opere di Monty Python, ma con un’impronta tipicamente italiana.

Anche Habemus Papam (2011) di Nanni Moretti si inserisce in questo filone, raccontando con toni tragicomici il peso insostenibile della leadership spirituale attraverso un Papa in crisi esistenziale. Moretti costruisce un’opera che oscilla tra la commedia e il dramma. Il nuovo Papa, interpretato magistralmente da Michel Piccoli, si rivela incapace di accettare il proprio ruolo, evidenziando le debolezze umane celate dietro la sacralità del pontificato. La scelta di rappresentare il Vaticano attraverso spazi sterili e asettici colpisce lo spettatore, suggerendo l’alienazione del potere. Moretti sovverte la figura del Santo Padre, rendendolo simbolo universale della crisi d’identità e delle responsabilità che accompagnano il ruolo pubblico.

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Chiara e La Papessa

C’è poi anche un sacro al femminile, espressione di voci di donne e dissidenza. Il cinema recente ha dato eco a prospettive di figure spesso marginalizzate nella narrazione religiosa tradizionale, così Chiara (2022) di Susanna Nicchiarelli offre un ritratto intimo e umano della Santa di Assisi, sfidando i canoni dell’agiografia classica e restituendo una dimensione politica e rivoluzionaria al suo messaggio spirituale. Nicchiarelli riscrive la figura di Chiara con un approccio femminista e politico, ponendo l’accento sul suo desiderio di emancipazione e uguaglianza. Il film rompe con le convenzioni del biopic religioso tradizionale e sceglie una narrazione intima e, al contempo, universale. Il film affascina per l’uso dei canti e delle musiche medievali, che conferiscono autenticità storica e rafforzano il legame tra il sacro e la terra. La regia è delicata ma incisiva, e permette di leggere la vita della Santa come una ribellione contro le gerarchie di potere, sia religiose che patriarcali.

D’altro canto, La Papessa (2009) esplora la leggenda di Giovanna, presunta donna che avrebbe ricoperto il ruolo di Papa, interrogandosi sui rapporti di genere e sulle esclusioni operate dalle gerarchie ecclesiastiche. Tra mito e femminismo, il film diretto da Sönke Wortmann, porta sullo schermo una donna che avrebbe raggiunto il soglio pontificio nel IX secolo celando la sua identità, proponendo così una figura simbolica di emancipazione femminile, scegliendo per l’adattamento una narrazione moderna e lineare. Visivamente suggestivo, con scenografie medievali d’impatto, il film punta sul melodramma e sull’intrattenimento, sacrificando un po’ l’approfondimento su religione e politica. Tuttavia, il ritratto invita a riflettere sulla discriminazione di genere, mostrando come le donne siano state escluse dai ruoli di potere. Nonostante alcune contraddizioni, La Papessa riesce a coniugare mito e attualità, mettendo al centro il coraggio femminile e la lotta per l’uguaglianza.

Marcellino pane e vino 

L’ungherese Ladislao Vajda è stato autore di un racconto sul’innocenza come veicolo del sacro: la storia è quella di Marcellino, orfano allevato dai frati, che stringe un legame intimo con un crocifisso. La narrazione di Marcellino pane e vino (1955) è intrisa di una semplicità che potrebbe sembrare ingenua, ma il film si eleva grazie alla capacità di evocare profonda pietà attraverso il punto di vista innocente del bambino. Un dettaglio non secondario è il contrasto tra il minimalismo della messa in scena e la potenza simbolica dell’immagine del crocifisso che “risponde” a Marcellino. Vajda evita il sentimentalismo e si concentra su un lirismo visivo che sfiora il trascendente.

L’udienza

Un’opera profondamente allegorica e provocatoria, quella di Marco Ferreri: con L’udienza (1972) la Fede viene messa in crisi dall’assurdo. Il protagonista, Amedeo (Enzo Jannacci), è un uomo qualunque che desidera ottenere un’udienza privata con il Papa, ma viene intrappolato in un labirinto burocratico e surreale. Il film riflette sull’inaccessibilità del potere spirituale e sulla disumanizzazione dell’apparato ecclesiastico. L’udienza si distingue per l’interpretazione commovente di Jannacci e per il tono kafkiano che permea l’intera opera. Il film rappresenta una critica feroce, ma mai esplicita, al ruolo della Chiesa come istituzione, utilizzando la lente del grottesco per esplorare i confini tra Fede personale e religione organizzata.

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Le confessioni e I due Papi

Con titoli come Le confessioni (2016) di Roberto Andò e I due Papi (2019), il cinema recente si concentra sulle ambiguità del potere e sulle contraddizioni della Chiesa nel mondo moderno, portando a riflessioni universali sulla Fede nell’epoca contemporanea. Le confessioni affronta il confronto tra economia e religione, mostrando come i valori spirituali possano essere messi alla prova dai meccanismi del potere globale. Andò mette in scena un thriller psicologico, ambientato durante un G8, in cui un economista di spicco viene trovato senza vita. Il cuore della trama è Roberto Salus (Toni Servillo), enigmatico monaco che potrebbe custodire cruciali segreti: la vicenda intreccia riflessioni filosofiche e tensioni politiche, esplorando il contrasto tra potere materiale – rappresentato dai leader mondiali – e spiritualità, di cui è portatore il monaco. L’espressività magnetica di Servillo e la regia elegante di Andò concorrono a indagare il peso della verità e del silenzio, lasciando però a chi guarda il compito di decifrarne i significati più profondi.

I due Papi offre invece uno sguardo intimo e universale sul passaggio tra il pontificato di Benedetto XVI e Francesco, indagando il dialogo tra tradizione e rinnovamento. Fernando Meirelles realizza un film che è, prima di tutto, un confronto tra due visioni del mondo: la tradizione conservatrice di Benedetto XVI e la spinta progressista di Francesco. Il film è dominato dalle interpretazioni di Anthony Hopkins e Jonathan Pryce, che trasformano i dialoghi in veri e propri duelli verbali. Una fotografia calda e la regia fluida umanizzano i due protagonisti senza cadere nell’agiografia. I due Papi, ancora, usa flashback che esplorano il passato di Francesco, creando un legame tra la sua storia personale e le sue scelte di leader spirituale.

Il villaggio di cartone e Papa Francesco – Un uomo di parola

Ci sono film che sono come una porta aperta, dove il sacro si fa luogo libero in cui porre di domande. Il villaggio di cartone (2011) di Ermanno Olmi e il  documentario Papa Francesco – Un uomo di parola (2018) di Wim Wenders esplorano il ruolo della Chiesa come luogo di accoglienza e riflessione sui grandi temi del nostro tempo, dall’immigrazione alla giustizia sociale. Questi lavori si interrogano su cosa significhi davvero aprire una “porta santa”: non solo un gesto simbolico, ma un richiamo all’inclusione e alla solidarietà, valori centrali della Fede cristiana.

The Young Pope, The New Pope e Papa Giovanni – Joannes XXIII

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Non solo il grande schermo s’è dedicato a storie che raccontino lo spirito prismatico della Chiesa, ma anche il piccolo schermo e la grande serialità, così ecco tre titoli, con i primi due capaci di restituire il concetto di potere secondo Paolo Sorrentino: The Young Pope (2016) e The New Pope (2020). Le serie di Sorrentino rappresentano un’analisi provocatoria e visionaria del potere spirituale e terreno. Con la figura immaginaria di Lenny Belardo (Jude Law), il primo Papa americano, e del suo successore, John Brannox (John Malkovich), il regista napoletano esplora il Vaticano come teatro di contraddizioni, ambizioni personali e tensioni politiche. L’estetica è potentissima e maliante, tratto sorrentiniano, qui più che mai necessario alla riuscita del mescolamento tra sacro e profano, con la proposta di immagini di grande impatto che riflettono il dualismo tra divinità e umanità. La regia, ricca di simbolismi e momenti onirici, crea un universo sospeso tra realismo e metafisica, sottolineato da una colonna sonora eclettica, dalla musica sacra al pop contemporaneo. Entrambe le serie riflettono sull’ambiguità del potere e sulla crisi della fede. Lenny è un Papa autoritario, carismatico e imprevedibile, mentre Brannox incarna un’autorità più fragile e insicura: insieme rappresentano due facce della Chiesa, un’istituzione che cerca di conservare la tradizione mentre affronta le sfide della modernità. Sorrentino evita risposte definitive, preferendo lasciare allo spettatore il compito di interpretare i misteri della Fede e della natura umana. Le due storie offrono un racconto complesso e multilivello che sfida il pubblico a riflettere sui limiti del potere e sul bisogno di spiritualità.

Mentre Giorgio Capitani è stato l’autore del ritratto di un Papa del popolo, il “Papa Buono”: la mini serie Papa Giovanni – Joannes XXIII, interpretata da un intenso Ed Asner, segue il percorso umano e spirituale di Giovanni XXIII, dalla sua infanzia contadina fino alla proclamazione del Concilio Vaticano II. La regia, sobria e tradizionale, privilegia il lato umano del pontefice, sottolineandone l’umiltà, la profonda Fede e l’impegno per il dialogo e la pace. Nonostante una messa in scena priva di particolari audacie stilistiche, la serie si distingue per la cura nella ricostruzione storica e per saper trasmettere un messaggio universale di compassione e speranza. La storia, senza pretese di innovazione, scuote la commozione, ricordando l’importanza di un pontefice che ha segnato la Storia della Chiesa e del mondo.

Dulcis in fundo in termini temporali, ecco il tempo del Conclave, vicenda d’intrighi e potere dietro le porte del Vaticano.

Il film diretto da Edward Berger, basato sul romanzo di Robert Harris e girato a Cinecittà, offre uno sguardo avvincente sulle dinamiche interne alla Chiesa cattolica durante l’elezione di un nuovo Papa. Il film segue il cardinale Lawrence (Ralph Fiennes) mentre naviga tra alleanze e segreti nel conclave, rivelando le tensioni tra fede e ambizione. La visione di Berger crea un’atmosfera claustrofobica, enfatizza l’intensità delle deliberazioni a porte chiuse. Le interpretazioni di Fiennes, Stanley Tucci, Isabella Rossellini e Sergio Castellitto, sono motivo d’elogio per la profondità e complessità realistiche di cui sono capaci. Tuttavia, alcuni critici hanno espresso riserve sul finale del film, considerandolo controverso e divisivoConclave, indubbiamente, è capace d’intrecciare suspense e dramma, offrendo una rappresentazione intrigante dei giochi di potere all’interno del Vaticano. Il film invita a riflettere sulle sfide morali e politiche che accompagnano l’elezione papale.

Questo viaggio cinematografico in 16 titoli fa emergere il talento del cinema di farsi specchio delle tensioni spirituali e sociali, mantenendo costantemente aperta la porta sul mistero del sacro. Questi film dimostrano che il cinema non si limiti a rappresentare la Fede, ma la interroghi, la sfidi e la reinterpreti, aprendo infinite porte sulle incognite della sacralità. L’apertura della Porta Santa, dunque, in questo contesto diventa una metafora potente per riflettere sul ruolo del sacro nella cultura contemporanea. I titoli proposti dal cinema offrono non solo una visione del passato, ma anche una prospettiva prossima, suggerendo che il dialogo tra cinema e Fede continuerà a porre domande, stimolare riflessioni e provocare emozioni.

 

 

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