Il capitalismo finanziario sta manifestando i suoi aspetti più deteriori, a cominciare dal versante politico. In primo luogo, ha coniato una nuova definizione del super ricco. Elon Musk è l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio complessivo di circa 430 miliardi di dollari.
Una ricchezza che ha due caratteristiche. La prima è costituita dal fatto di essere in larghissima misura di natura finanziaria perché dipende dal valore delle azioni possedute. La seconda si lega alla formidabile velocità della sua crescita; in meno di un anno è praticamente raddoppiata, con un gigantesco balzo in avanti dopo l’elezione di Donald Trump.
Tra le due caratteristiche esiste un’evidente relazione che testimonia la sempre più evidente fine del mercato. La vicinanza di Musk con Trump e con altri governanti mondiali, lo mette nelle condizioni di essere in possesso di informazioni e di attenzioni che certo non hanno altre società: in pratica Trump è l’incarnazione di insider trading e infiniti conflitti di interessi che alimentano la corsa delle società di cui possiede pacchetti azionari.
Il presunto mercato non fa altro che certificare questa situazione di fatto, rinunciando a contrastarla, magari prendendo in esame il reale stato di salute delle stesse società di Musk. Intanto l’uomo più ricco del mondo alimenta il suo “grande gioco” buttandola costantemente in politica: nasce di qui il sostegno, pieno, al Governo Meloni, l’appoggio incondizionato a Nigel Farage in Gran Bretagna, la celebrazione di Afd in Germania.
In questo senso il più grande miliardario scommette sulla destra più dura, mettendole a disposizione soldi e comunicazione, per disporre di governi dove domina l’uomo o la donna forte con cui è più facile fare affari senza troppe pastoie parlamentari; in sostanza senza i noiosi inghippi della democrazia. Per la ricchezza di Musk sono necessari i capipopolo in una dimensione dove la sua narrazione antisistema diventa il collante per rovesciare qualsiasi traccia di opposizione liberale, ritenuta, paradossalmente, un egoistico intellettualismo elitario. Musk è riuscito a far credere che sta con il popolo contro le élite. Una favola.
Il secondo esempio dei rapporti fra capitalismo finanziario e politica proviene sempre dagli Stati Uniti. Il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, che ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di lasciare la carica neppure se Trump glielo chiedesse, ha fatto sapere che i tassi di interesse, dopo l’inavvertibile taglio di 0,25 punti, non scenderanno ancora, nonostante l’inflazione sia significativamente crollata.
Con una dichiarazione del genere Powell sferra un colpo proprio alla strategia del nuovo presidente che ha bisogno, per il rilancio dell’economia Usa, di tassi più bassi e di un costo del denaro favorevole a imprese e famiglie, oltre che ai suoi carissimi fondi hedge e al private equity: in sintesi al mondo che lo ha votato. La banca centrale americana, dunque, non risponde a Trump, ma neppure il Congresso sembra volergli dare una mano, bocciando la sua proposta di sospendere per due anni il tetto al debito federale.
L’ex magnate ha bisogno di denaro liquido e della possibilità di finanziare con il debito la spesa pubblica per rilanciare l’economia produttiva, trovando tuttavia forti oppositori.
Forse non è un caso, allora, che per recuperare il consenso delle “Big Three” minacci dazi durissimi all’Europa se non aumenta la quota di gas e di petrolio comprata dagli europei: è noto infatti che le major petrolifere e il settore dello shale gas siano nelle mani dei grandi fondi, con cui Trump sta cercando di stabilire un canale di contatto anche per evitare, come sembra, che BlackRock, Vanguard e State Street mollino l’impresentabile signor Musk, della cui società possiedono il doppio delle sue azioni.
Fare il presidente degli Stati Uniti contro i poteri forti è davvero dura, tanto più da parte di un esponente del capitalismo finanziario più arrembante, per cui le criptovalute valgono più delle azioni di Nvidia.
Il terzo caso della fisionomia “politica” del capitalismo finanziario proviene, apparentemente, dal Giappone, L’aggregazione di Honda con Nissan e Mitsubishi ha sicuramente un significato industriale ma, al tempo stesso, ha anche un duplice valore finanziario. Per capire meglio il senso dell’operazione è bene considerare gli azionisti principali dei tre marchi.
Honda ha una quota del 12% in mano alla Honda Ltd, ma una percentuale azionaria di poco superiore è posseduta da BlackRock e da altri fondi assicurativi. La stessa BlackRock, insieme a Berkshire, possiede il 10% di Mitsubishi mentre Nissan è per il 35% nelle mani di Renault.
È chiara quindi la volontà di creare un colosso automotive che produca circa dieci milioni di mezzi ma è chiara anche l’intenzione dei gruppi finanziari di “impossessarsi” della gestione del risparmio di circa 400mila dipendenti a cui vendere polizze e vari altri strumenti finanziari.
Naturalmente con questa liquidità il titolo della neonata holding sarà decisamente competitivo. Nella condizione del capitalismo attuale è impossibile prescindere dalle logiche finanziarie che devono prevalere su qualsiasi prospettiva di “politica” nazionale.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)
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