L’analisi/ La Nato, Trump e la difesa europea frammentata

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Fa parte delle tecniche negoziali che Donald Trump, conosce bene, la richiesta fatta arrivare agli europei di un aumento della spesa militare al 5% del Prodotto Interno Lordo in cambio della sopravvivenza dall’ombrellone protettivo della Nato. In realtà, tuttavia, la risposta che ci chiede il Presidente eletto degli Stati Uniti costringe l’Unione Europea a fare i conti con quella che è una responsabilità storica che precede persino il suo atto costitutivo. Una responsabilità che chiede di fare un ragionamento che va aldilà della polemica sulle percentuali del Pil e che ci pone domande alle quali dobbiamo dedicare una riflessione strategica: quanto costa oggi dotarsi di un sistema di difesa sufficientemente credibile da proteggerci dall’aggressione di un Paese terzo (ad esempio, la Russia)? Come può essere sostenuto tale impegno da Stati già debilitati da crisi finanziarie e che non possono tagliare ulteriormente la sanità per non frantumare definitivamente le società che dovrebbero proteggere? Cosa può fare, oggi, la differenza rispetto a schemi che per 75 anni hanno reso impossibile l’approdo ad una difesa comune?

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   La richiesta di Trump è esagerata perché, in realtà, neanche gli Stati Uniti (che pure investono il 37% di quello che costano gli eserciti al mondo intero) spendono in difesa quanto ci chiede il nuovo Presidente. Secondo i numeri del Sipri di Stoccolma, il Pentagono assorbe, infatti, “solo” il 3,4% del PIL degli USA che è il valore più basso da 85 anni (mediamente il rapporto è stato del 6,1% dal 1948). D’altra parte, lentamente la spesa militare è, invece, in crescita per l’Unione (era inferiore a 400 euro per abitante nel 2018, oggi è superiore a 600) anche se non arriva ancora al 2% sul Pil raccomandato dalla Nato.

   In realtà, i numeri dicono che basta mettere insieme la spesa di Germania e Francia (127 miliardi) per superare quella della Russia (109); ma stabilire quanto costa essere pronti ad una guerra per imporre la pace, significa, soprattutto, considerare quanto le tecnologie stanno cambiando le equazioni.

   Lo scontro in Ucraina dimostra che molto di più si usano droni che, ormai, assomigliano a telefoni cellulari volanti capaci di arrivare indisturbati alle spalle delle linee avversarie; e quella in Libano che può bastare un cercapersone per ospitare una carica esplosiva sufficiente a far saltare per aria il nemico. Sta cambiando la natura della guerra, anche se il fronte del Donbass si è fermato in trincee che ingoiano carne umana come nelle guerre combattute più di un secolo fa. E, ovviamente, non può non cambiare la spesa che un deterrente militare efficace comporta. In un contesto tecnologico nel quale non necessariamente vince chi spende di più (il budget dell’esercito israeliano è tre volte inferiore a quello dell’Arabia Saudita ma domina il Medio Oriente perché costretto all’innovazione costante).

   L’Europa deve spendere di più, ma prima ancora è necessario che lo faccia meglio. Tre i problemi più evidenti che si leggono nei numeri dell’Agenzia Europea per la Difesa (Eda) e sono problemi che sembrano dire che dietro tanti proclami ci sono ancora pochi fatti.

   Innanzitutto, laddove gli eserciti dei 27 Paesi dell’Unione costano quanto quello della Cina (280 miliardi), la Cina, però, investe il doppio nelle attività di ricerca. In secondo luogo, mentre la Commissione Europea stessa dimostra che comprando insieme potremmo risparmiare (e investire meglio) fino a 75 miliardi all’anno (il 30% del totale), il paradosso è che il valore degli appalti comuni (rispetto a quelli gestiti a livello nazionale) sta diminuendo: l’acquisito congiunto di tecnologie digitali è passato dall’11% del totale nel 2018 al 6,5 nel 2023. Infine, a Trump che chiede di spendere di più, si può rispondere che è già raddoppiata la specifica spesa in equipaggiamenti militari; ma il 78% di tali forniture, arriva da Paesi non dell’Unione (e soprattutto dagli Stati Uniti).

   Il risultato è quello di aver perso l’ennesima occasione di trasformare una crisi in una opportunità. L’opportunità era quella di rafforzare, modernizzare, integrare, rendere più efficiente un’industria della difesa europea che è frammentata tanto quanto lo è una domanda di 27 Paesi. Ed è stata finora persa. Spetta a due ex primi ministri nati in quella che era l’Unione Sovietica (l’estone Kaja Kallas, alta rappresentante per la politica estera dell’Unione, e il lituano Andrius Kubilius, che guiderà il dossier su difesa e spazio) dare sostanza alle parole.

   La sfida della difesa si vince riuscendo a sciogliere alcune delle contraddizioni di una Unione fragile che, peraltro, trova nel proprio trattato istitutivo, persino, un divieto (articolo 41) a spendere budget comunitario in armamenti. È giusto cominciare a fare difesa (e, dunque, politica estera) comune; ma ciò si fa con chi ci sta senza aspettare chi fosse scettico e aprendosi anche a chi (Regno Unito) ne può condividere l’agenda. È giusto che proprio sulla difesa si faccia debito congiunto: ma solo destinandolo ai progetti più avanzati che sono quelli che faranno d’avanguardia ad una difesa che diventi progressivamente condivisa. Ed urgente sarebbe anzi creare un’agenzia europea dedicata alla ricerca come l’americana Darpa che ha avuto il merito di avviare progetti di innovazione – il più famoso si chiama Internet – che hanno avuto effetti molto lontani da quelli che interessavano il Pentagono.

   I fantasmi più pericolosi si affrontano guardandoli negli occhi. Di fronte alla possibilità cresciute di una guerra in casa, l’Unione Europea deve avere la forza di capovolgere la minaccia nella leva per poter realizzare il suo obiettivo più antico.

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