il messaggio (alla politica) del caso Eni-Nigeria

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Le polemiche legate alle assoluzioni di Renzi e Salvini stanno fomentando un proliferare di scontri in cui la magistratura, oltre che dalla politica, è stata fortemente attaccata dall’avvocatura, che ha biasimato in un comunicato “l’uso politico dello strumento giudiziario da parte della magistratura, che ha avuto nel nostro Paese tratti eversivi”, venendo a sua volta accusata dal segretario dell’ANM di scarsa lucidità. Ebbene, con più lucidità, è forse preferibile astrarsi dalle citate polemiche e concentrare l’attenzione su due spunti di riflessione; legati il primo alla vicenda della ipotizzata introduzione di una giornata da dedicare alle vittime di errori giudiziari, e il secondo al deposito delle motivazioni con le quale il tribunale di Brescia ha condannato due pm della procura di Milano per omissione di atti di ufficio in relazione al processo a carico dell’ENI.



Per quanto riguarda il primo spunto, qualche giorno fa, il Corriere della Sera, attraverso un bel pezzo di Aldo Grasso, ha dato grande eco alle ragioni espresse da Gaia Tortora in un surreale confronto televisivo con il segretario dell’ANM, affermando che, a fronte della spesa in risarcimenti per più di 740 milioni di euro, al ritmo di 81.000 euro al giorno, a carico dello Stato, l’istituzione della “Giornata delle vittime degli errori giudiziari” non possa essere considerata una iniziativa deprecabile. Rispetto alle argomentazioni del segretario del sindacato di giudici, secondo cui gli errori giudiziari sono da considerarsi terapeutici, Grasso ha scritto che andrebbe aggiunta la considerazione che i medici, quando sbagliano, pagano, a differenza di quanto accade ai magistrati, citando ad esempio proprio il caso Tortora; nel quale coloro che sostennero quell’accusa così strampalata hanno poi avuto tutti importanti riconoscimenti di carriera, con tanto di elezione al Csm per uno di essi.

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Se i tre gradi di giudizio servono apposta per evitare gli errori, occorre, come da sempre invocato in queste pagine, che in presenza di imperizia, impreparazione, superficialità debba scattare una più incisa forma di responsabilità, senza che ci debba essere lo scudo dello Stato a proteggere gli incapaci. Ma ciò che davvero assume un certo rilievo è la circostanza che sul più noto quotidiano nazionale si scriva che la difesa della “sacralità” dei tribunali contro le gogne mediatiche non deve estendersi a coprire l’esistenza della “malagiustizia”, dovendosi al contrario porvi rimedio, anche in senso simbolico. L’aria dunque sta cambiando.



L’invocato senso simbolico fa da cornice al prologo relativo alla seconda vicenda sulla quale vogliamo soffermarci.

Sempre pochi giorni fa, Il Giornale ha dedicato al dott. De Pasquale, pm milanese condannato dal tribunale di Brescia per non aver depositato nel processo a carico dell’ENI importanti prove a favore degli imputati, un’intera pagina, dando rilievo a come egli non solo continui ad occuparsi di presunte corruzioni nonostante la gravità della condanna, e soprattutto come egli continui anche ad occupare il medesimo – particolarmente comodo – ufficio da procuratore aggiunto nonostante da quel ruolo egli sia stato rimosso. Oltre la questione della stanza, che certamente rappresenta un simbolo di non scarso impatto, ciò che davvero colpisce è che una condanna, sebbene non definitiva, non abbia determinato alcun provvedimento disciplinare, fosse anche provvisorio, nei suoi confronti.

Eppure, dal deposito delle motivazioni di quella sentenza di condanna emerge un quadro davvero allarmante di un certo modo di intendere il ruolo di pm. Secondo i giudici di Brescia, i due pm milanesi hanno formulato un preciso calcolo, ovvero “omettere produzioni che avrebbero indebolito l’accusa”. Una scelta consapevole quella che ha determinato per i due pm la condanna a 8 mesi per omissione d’atti d’ufficio, che fa luce anche su un violentissimo scontro interno alla procura di Milano che aveva portato “‘alla marginalizzazione lamentata dal dottor Storari’, il pm che aveva fornito ai due colleghi le prove della falsità del teste chiave – l’ex manager Eni Vincenzo Armanna –, con lo scopo, come sottolineato dallo stesso Storari nel corso del dibattimento, di non ‘rompere le balle a quel processo’”. I due magistrati imputati, secondo le motivazioni della sentenza di condanna, avrebbero pertanto taciuto “deliberatamente l’esistenza di risultanze investigative in palese ed oggettivo conflitto con i portati accusatori” sviluppati nella loro inchiesta.

La gravità di tali condotte, poste in essere da uno dei magistrati di punta di una delle procure più importanti d’Italia, certamente di quella storicamente più impegnata nel fronte della lotta alla corruzione e alla criminalità economica oltre che culla di Tangentopoli, non ci pare sia stato adeguatamente fatto oggetto di riflessione e forse neanche di divulgazione pubblica.

Il primo aspetto di rilievo è che non si sia contestato ai pm milanesi l’uso improprio del potere discrezionale nella scelta degli elementi probatori da spendersi nel dibattimento “ENI Nigeria”, rispetto a cui hanno correttamente affermato la loro piena autonomia, quanto piuttosto “di aver trascurato che il pubblico ministero, a differenza di quanto avviene per le parti private che sono libere di perseguire le strategie processuali ritenute più convenienti a tutela dei propri assistiti, non può rivendicare a sé l’esclusività del giudizio sulla pertinenza e rilevanza della prova, arrogandosi una sfera illimitata di insindacabilità”. Detto in parole povere, è ciò di cui da trent’anni si duole chi ha inutilmente contestato un certo modo di fare indagini, un certo approccio finalizzato al perseguimento di un obiettivo diverso da quello dell’accertamento dei fatti.

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Ecco allora che la sentenza di Brescia assume un’estrema importanza perché ha cristallizzato il disvelamento di un modus operandi patologico, scoperchiando altresì un verminaio, non meno dirompente della vicenda Palamara, ovvero l’esistenza di una guerra interna fra bande. Se infatti è vero che il processo di Brescia attiene a fatti circoscritti e limitati, appare quanto mai evidente che quanto accertato in questo processo riguarda un certo modo – distorto – di fare giustizia in questo Paese.

Non di minore importanza è un secondo aspetto: la sentenza dedica uno spazio rilevante a ciò che potremmo chiamare interferenze illecite, ovvero il tentativo di delegittimazione del presidente del collegio del caso ENI. La vicenda in parola, infatti, secondo i giudici di Brescia, rappresenta “la cartina di tornasole dell’atteggiamento antidoveroso assunto dai pm imputati nel corso del dibattimento ‘Eni Nigeria’”. Stando al racconto dell’ex avvocato esterno di ENI, Piero Amara, rivelatosi non attendibile, il presidente del collegio, Marco Tremolada, sarebbe stato avvicinato dalle difese del processo, alle quali il giudice aveva promesso l’assoluzione. Ebbene, si legge in sentenza: se, inizialmente, in procura erano tutti d’accordo a non far uscire la cosa – trattandosi, peraltro, di un de relato –, “in seguito si era invece ritenuto che una simile dichiarazione, se pure priva di riscontri, ‘non potesse stare nel cassetto’” e venne dunque trasmessa a Brescia (che archiviò poco dopo) per le valutazioni del caso.

Pur potendo questo essere ritenuto un atto dovuto, “tuttavia la gestione successiva della vicenda da parte degli odierni imputati ha assunto contorni patologici al di fuori dei binari codicistici”. È stato lo stesso De Pasquale, nel corso del processo, ad ammettere che il fine era forse più sottile, ossia quello di “influenzare mediante un avvertimento, un ‘warming’ sotterraneo, la conduzione dell’istruttoria ritenuta troppo sbilanciata verso le difese”. Se il piano fosse stato portato a compimento, aggiunge il collegio, si sarebbe verificata una delegittimazione di Tremolada “difficilmente sanabile, anche nel caso in cui la questione – come era prevedibile – fosse stata poi dichiarata manifestamente infondata”.

Ma la sincronia della trasmissione degli atti a Brescia (4 febbraio 2020) e la richiesta di sentire Amara (5 febbraio 2020) evidenzia la stretta connessione tra le due iniziative e qualora Amara avesse ribadito quell’informazione sarebbe stato di fatto pressoché impossibile per Tremolada proseguire la conduzione del processo. I fatti, come ricostruiti dai giudici di Brescia, non meritano commenti, per la loro intrinseca gravità. Legittimo anche qui chiedersi quante altre volte approcci analoghi siano invece riusciti a condizionare l’esito di un processo. La già scarsa affidabilità della categoria esplode in mille pezzettini se si scopre che sono loro stessi a boicottarsi.

In estrema sintesi, come hanno scritto gli stessi giudici di Brescia, ricordiamolo, a fronte di condotte di altri magistrati: l’autonomia della magistratura non può tradursi “in una sconfinata libertà di autodeterminazione tale da rendere discrezionali anche le scelte obbligate”, così da provocare un “‘turbamento’ sull’assetto del ‘giusto processo’ con il proprio incedere metodologico autoreferenziale”.

Toh, perbacco, verrebbe da dire, chi l’avrebbe mai detto. Non è che forse una parte più lucida della magistratura abbia inteso attraverso questa vicenda giudiziaria lanciare un messaggio di consapevolezza? Come a dire, prendiamo atto che l’aria è cambiata e ve lo dimostriamo riuscendo, con lucidità, ad autoprocessarci? E allora leggiamo tutte insieme queste sentenze, quella di Brescia e le recenti assoluzioni di Renzi e Salvini. Esse testimoniano che la magistratura è composta in larga maggioranza da magistrati che non seguono certe logiche ma ne sono in qualche modo vittime: esiste una magistratura che fa carriera e gestisce il potere, e una magistratura che subisce, come hanno anche scritto gli avvocati dell’Ucpi, la delegittimazione e la mancanza di fiducia che deriva dall’uso strumentale del potere giudiziario. Non è che, allora, anche e forse soprattutto per questo, vanno separate le carriere e creati due distinti Csm?

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