In un articolo pubblicato sulla rivista online “Menabò”, Natalia Orrù, Monica Pia Cecilia Paiella e Diego Pieroni mostrano come le tendenze degli ultimi 20 anni – sia pure con l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro ma con la persistenza della disparità di genere – si siano riflesse sui divari pensionistici.
Le pensioni erogate alle donne nel 2023 erano del 27% più basse rispetto a quelle degli uomini. Eppure le regole sono le stesse per ambedue i generi; la disparità è la conseguenza diretta di un divario persistente tra i due generi nel mercato del lavoro. Ciò spiega anche un apparente paradosso del sistema pensionistico italiano: abbiamo le regole più severe sull’età pensionabile, ma l’età effettiva media alla decorrenza del pensionamento è tra le più basse; l’età media effettiva rilevata al pensionamento per IVS nel 2023 è stata pari a 66,6 anni, ovvero a un livello prossimo all’età legale di 67 anni, stabilita per la pensione di vecchiaia di uomini e donne.
Dalla somma delle pensioni anticipate e di vecchiaia – pari al 34,6% di tutte le nuove liquidate – risultava, secondo l’Ocse, un’età media effettiva di 64,6 anni,con un importo medio mensile lordo di 1.563 euro (nel 2022 la corrispondente media OCSE era di 64,4 anni effettivi). La discrepanza è dovuta alle uscite di sicurezza che trasformano il sistema in un colabrodo (pensione anticipata ordinaria, opzione donna, quarantunisti precoci, quotacentisti, usurati e disagiati, Ape sociale). Resta però l’impressione che l’Ocse non abbia compreso del tutto l’incidenza del pacchetto dell’anticipo nel sistema pensionistico italiano. Tutti i paesi prevedono nei loro ordinamenti dei percorsi di anticipo, solitamente disincentivati sul piano economico. Noi siamo “più uguali degli altri” perché i pensionati che hanno anticipato il pensionamento sono 6,5 milioni contro i 4,2 milioni che percepiscono il trattamento di vecchiaia, che è considerato nella Ue la “normalità”.
In sostanza noi siamo coloro che ostentano regole più severe (di cui sono costretti ad avvalersi i settori deboli del mercato del lavoro e soprattutto le donne), mentre la possibilità di anticipo – che altrove è l’eccezione – da noi è divenuta di fatto la regola prevalente. Pertanto l’età media di 64,4 anni di età alla decorrenza effettiva della pensione è una sorta di statistica del pollo e della cipolla alla Trilussa perché le pensioni si colorano di identità di genere, nel senso che – soprattutto nei settori privati – le donne si avvalgono prevalentemente del trattamento di vecchiaia (a 67 anni) mentre gli uomini sono in condizione di usufruire del pensionamento anticipato (a un’età alla decorrenza effettiva media di 61,7 anni).
Vediamo la differenza tra le normative dei due trattamenti. Per la pensione di vecchiaia occorrono due requisiti: uno anagrafico (67 anni, salvo situazioni particolari come lavori usuranti, disagiati o richiedenti una specifica prestanza fisica) e uno contributivo pari ad almeno 20 anni. Per quella anticipata non sono previsti vincoli anagrafici, ma richieste di anzianità contributive elevate (42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne). Tutti questi requisiti anagrafici e contributivi torneranno a essere soggetti (dopo il blocco a partire dal 2019) all’adeguamento automatico all’incremento dell’attesa di vita fin dall’inizio del 2025.
Il tasso di occupazione delle donne, che partiva da livelli bassissimi (nel 1977 appena un terzo era occupato), è aumentato di 16 punti, superando il 53% nel 2020 (ma nella Ue a 27 era già il 67,5%). Di conseguenza il divario di genere si è più che dimezzato: da 41,1 punti percentuali del 1977 a 18,1 del 2018. Ma questa differenza nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa (18,7 punti su una media europea di 10). Ovviamente una situazione del genere incide non solo sui redditi, ma di conseguenza anche sulla tipologia e sull’importo delle pensioni degli uomini e delle donne.
Secondo l’Ocse, in Italia la vita lavorativa media di un uomo è pari a circa 37 anni, mentre quella di una donna a 28. In termini ancor più analitici, il 56,5% delle lavoratrici si presenta all’appuntamento con la pensione con un’anzianità fino a 25 anni; ciò significa che è in possesso soltanto del requisito contributivo minimo di 20 anni, il quale consente di andare in quiescenza al compimento dell’età di vecchiaia (ora 67 anni), sia con il calcolo retributivo che con quello contributivo; ma un requisito tanto modesto ha riflessi anche sull’importo della pensione. Diverso è stato il caso degli uomini: il 70,6% di loro nel periodo considerato aveva un’anzianità di 35 anni e più. Le ripartizioni interne (soprattutto il 53,3% in un arco temporale tra 35 e 40 anni) danno conto della possibilità (come accade in pratica da decenni) dei lavoratori di accedere a qualche forma di anticipo (a un’età anagrafica solitamente inferiore a quella di vecchiaia) e soprattutto di far valere una base contributiva tale da assicurare un trattamento più elevato.
La partecipazione delle donne al mondo del lavoro è molto legata ai carichi familiari: il tasso di occupazione delle madri è più basso di quello delle donne senza figli. Dal 2018 è aumentato lo svantaggio delle donne (da 25 a 49 anni) con figli in età prescolare rispetto alle donne senza figli. L’11,1% delle donne che ha avuto almeno un figlio nella vita non ha mai lavorato per prendersi cura dei figli, un valore decisamente superiore alla media europea (3,7%).
Nel Mezzogiorno si arriva a una donna su cinque. Il livello di istruzione ha un forte impatto nella mancata partecipazione delle donne con responsabilità familiari: il gap rispetto alle donne senza figli si riduce al crescere del titolo di studio; il rapporto tra i due tassi sale dal 53,8% per le donne con al massimo la licenza media al 72,6% per le diplomate, fino ad arrivare al 90,2% per le laureate. Il tasso di occupazione delle donne 25-49 anni con figli varia da un minimo di 17,1% delle madri del Sud con basso titolo di studio a un massimo di 81,4% delle madri laureate che vivono al Nord.
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