Il torinese Jacopo Chessa: «Scartato ai due bandi per la direzione della Mole ora guido le Commission. Giusta la scelta Chatrian»

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di
Fabrizio Dividi

Il nuovo presidente dell’associazione Italian Film Commissions:«Torino unica per la sua versatilità, al cinema può essere qualunque città d’Europa o States. E perfino indiana»

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«Avrei dovuto scegliere il liceo scientifico: non sono in grado di leggere i numeri e mi accorgo ora di quanto questo sia un limite». Jacopo Chessa, torinese classe 1973 che dal 2020 è a capo di Veneto Film Commission, è stato eletto presidente di Italian Film Commissions e continua a coltivare quella lieve ironia che lo contraddistingue. «In realtà, è un modo di essere molto piemontese: ogni volta che torno a casa la riassaporo e mi accorgo che un po’ mi manca».

In cosa consiste la nuova carica?
«L’associazione riunisce 19 Film Commission territoriali. Miei vice sono Fabio Abagnato dall’Emilia Romagna, e Alessandra Miletto, residente in Valle d’Aosta, ma torinese di nascita e formazione. Il nostro compito è di rappresentare i territori a livello internazionale e collaborare con le istituzioni allo sviluppo dell’audiovisivo in Italia. Film Commission come Piemonte e Friuli hanno compiuto 25 anni e i fondi regionali, prevalentemente “Fesr”, sono questione relativamente recente, ma già si parla di 75 milioni di euro complessivi».




















































E la direzione in Veneto Film Commission?
«In Veneto posso dire di essere uno “startupper”, anche perché prima di me non c’era nulla, nemmeno un ufficio. È un’esperienza sfidante per aver creato una realtà dal nulla e fortunata per essermi trovato supportato da uno staff di altissimo livello».

Si può dire che l’arte è sempre stata un «affare» di famiglia?
«Direi di sì. Mio padre Mauro, morto due anni fa, era pittore, ma ha anche lavorato nel cinema con Tonino De Bernardi incrociando personaggi come Sergio Toffetti e molti altri amici del Collettivo Cinema Militante. Era già della terza generazione di pittori, con suo nonno famoso per una grafica di Giuseppe Verdi e papà Gigi, morto a 36 anni e che mio padre non conobbe mai; era molto legato a Gualino e dipinse gli interni del Teatro di Torino. Aggiungo che mia sorella Silvia è gallerista e che io, alla fine, sarò ricordato come “quello che lavorava nelle Film Commission”».

La sua formazione?
«Diplomato al D’Azeglio, mi sono laureato in Lettere con Dario Tomasi con una tesi sul “secondo” Rivette. Lo chiamai al telefono e lui, forse pensando che la mia tesi fosse di dottorato in Francia, mi dedicò due ore del suo tempo».

Scusi, perché il «secondo»?
«Perché un certo Carlo Chatrian aveva appena fatto una tesi sul “primo”».

Cosa pensa del neo direttore del Museo del Cinema?
«Appena ho letto il suo nome ho pensato: “Se fossi in Ghigo sceglierei lui”. Glielo dice uno che ha partecipato agli ultimi due bandi da direttore ed è sempre entrato nella short list. Nel mio progetto prevedevo due sale cinetecarie e una d’essai e comprendo la posizione di Chatrian sui troppi festival al Massimo, ma trovo che il paragone con Parigi non regga e che sia giusto mantenere quelli che ne rispettano l’identità».

Una ragione di orgoglio?
«Aver diretto il Centro Nazionale del Cortometraggio fondato da Gianni Volpi sviluppato da Lia Furxhi — con un precedente coinvolgimento di Gaetano Capizzi — e in collaborazione con Alessandro Giorgio ed Eugénie Bottereau. Rispetto a Volpi, morto poco dopo il mio arrivo, gli ho dato un taglio più industry e meno culturale. Chissà se avrebbe apprezzato».

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Il Torino Film Festival?
«La presenza delle star non mi scandalizza e mi pare ci sia anche uno sforzo di selezione autoriale. Giulio Base è troppo intelligente per pensare, come ho letto, che chiunque sia in grado di fare selezione».

Suggerimenti?
«Coltivare il territorio e puntare su retrospettive di scoperta».
Rapporti con la «cugina» Film Commission Torino Piemonte?
«Molto buoni e cordiali. Conosco Paolo Manera da una vita e stimo lui come Beatrice Borgia, presidente che si è votata completamente al suo ruolo».

Invidia qualcosa al Piemonte?
«Non mi lamento, in fondo abbiamo Venezia, la città più iconica del mondo, il mare e le Dolomiti. Torino però è unica nella sua straordinaria versatilità. Oltre a se stessa, può interpretare una città d‘Europa o degli Stati Uniti, e persino un remoto paese indiano».

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