Così Putin sta sfilando l’Africa ai francesi

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Il decollo e il rientro in Francia dell’ultimo Mirage 2000D stazionato all’aeroporto militare di N’Djamena, capitale del Ciad, il 12 dicembre scorso ha tutti i crismi dell’evento storico: sin dalla sua creazione nel 1939, la base aerea aveva ospitato squadriglie delle forze armate francesi senza soluzione di continuità, non risultando tale nemmeno la dichiarazione di indipendenza del paese nel 1960. E con l’imminente ritiro completo dei mille soldati francesi presenti in Ciad dopo la denuncia da parte del presidente Mahamat Deby dell’accordo di cooperazione con Parigi in materia di difesa, rinnovato appena cinque anni fa, prende corpo un altro inedito storico: per la prima volta dai tempi della Conferenza di Berlino che consacrò la spartizione dell’Africa fra le potenze europee (1884) la Francia dispone di truppe e relative basi militari soltanto in quattro paesi del continente, destinati a breve a ridursi a tre.

Il più grosso distaccamento è a Gibuti, dove però i suoi 1.500 uomini devono convivere con vicini rappresentati dalla grande base americana di Camp Lemonnier e da basi più piccole affittate da cinesi, giapponesi e italiani. Poi vengono la Costa D’Avorio con 600 unità (dove è anche grazie al supporto delle truppe francesi che l’attuale capo di Stato Alassane Ouattara è andato al potere nel 2011) e il Gabon e il Senegal con 350 ciascuno, ma nell’ultimo caso la presenza transalpina è agli sgoccioli: entro il prossimo mese di gennaio il contingente dovrà partire, secondo quanto disposto da Bassirou Diomaye Faye, il nuovo presidente senegalese che della partenza dei militari francesi aveva fatto uno dei punti del suo programma elettorale dichiaratamente “sovranista”.

La telefonata di Faye in Russia

Dopo la vittoria alle presidenziali dell’aprile scorso del candidato del partito Pastef (Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità) la mossa era attesa, ma due fatti l’hanno resa più dolorosa per Parigi. Il primo è la coincidenza con l’annuncio, decisamente a sorpresa, ciadiano: entrambi i paesi hanno notificato la decisione di allontanare i soldati francesi presenti sul loro suolo il 28 novembre scorso. Il secondo è che la decisione senegalese è stata preceduta, il 22 novembre, da una cordiale telefonata fra il presidente Faye e Vladimir Putin nel corso della quale, informa l’ufficio stampa della presidenza del Senegal, «entrambi i leader hanno espresso il desiderio di rafforzare l’amicizia e la cooperazione fra Russia e Senegal».

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La discussione tra i due capi di Stato, si legge ancora nella nota, «ha anche riguardato la situazione della sicurezza nel Sahel e nell’Africa occidentale, concordando sull’opportunità di lavorare insieme per la pace e la stabilità nella regione. Il presidente Putin ha colto l’occasione per invitare il presidente Faye a visitare la Russia, un invito che è stato volentieri accettato dalla controparte senegalese».


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Nel pieno dell’inverno russo, nel prossimo mese di gennaio Faye si recherà a Mosca per concordare con Putin come lavorare per la pace e la sicurezza nel Sahel e nell’Africa occidentale, dilaniati da un decennio a questa parte dalle bande jihadiste. Ma soprattutto per ricordare a tutti un dato di realtà: alla ritirata francese dal continente africano corrisponde una costante, per quanto non sempre efficace, avanzata russa.

L’arma del Gruppo Wagner

Sotto l’aspetto militare, la Russia opera in Africa non attraverso le sue forze armate ma attraverso una compagnia militare privata incorporata in un’altra compagnia che è direttamente controllata dal ministero della Difesa: la prima è il famoso Gruppo Wagner, capeggiato da Pavel Prigozhin, figlio del defunto fondatore Evgenij, l’altra è l’Africa Corps, che risponde al viceministro della Difesa Yunus-Bek Yevkurov. Wagner/Africa Corps è operativa in Mali, Burkina Faso, Niger, Libia, Sudan e Centrafrica, e garantisce la sicurezza del presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema Mbasogo con 800 uomini.

In Centrafrica i mercenari russi hanno effettivamente tagliato le unghie alle forze ribelli e sventato un colpo di Stato, ma nel Sahel non hanno finora ottenuto risultati migliori di quelli conseguiti dalle operazioni a guida francese Serval e Barkhane nel decennio scorso. Ha fatto notizia l’agguato del 25-27 luglio scorsi in una località nei pressi della frontiera fra Mali e Algeria dove i ribelli tuareg avrebbero ucciso 84 combattenti del Gruppo Wagner.

L’adunata dell’Africa putiniana a Sochi

A preoccupare la Francia e gli altri paesi europei è soprattutto l’aspetto politico. Scriveva pochi giorni fa Le Figaro:

«Nel 2023 la Russia ha consegnato 4,6 miliardi di euro di armamenti ai suoi nuovi clienti africani. È a N’Djamena, in Ciad, paese che ha appena rotto con Parigi, che il ministro degli Esteri russo Lavrov ha completato, il 5 giugno scorso, un tour che lo aveva portato in Guinea, Congo e Burkina Faso. Un mese dopo, il suo vice Mikhail Bogdanov è andato a Dakar, dove è stata inaugurata una camera di commercio Africa-Russia. Il nuovo presidente del Senegal, Bassirou Diomaye Faye, sarà ricevuto a gennaio da Vladimir Putin a Mosca, a un anno di distanza dalla visita del presidente del Ciad, Mahamat Idriss Deby. Aggiungiamo che il 9 e il 10 novembre Lavrov ha riunito a Sochi una cinquantina di diplomatici e alti funzionari africani per discutere i loro interessi comuni…».


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Il vertice di Sochi, che riuniva i ministri degli Esteri dei paesi africani con Lavrov, ha approvato una chilometrica dichiarazione congiunta che rispecchia contenuti cari al Cremlino come il «mondo multipolare», la «preservazione dell’unicità culturale e di civiltà degli Stati indipendentemente dalle differenze delle loro strutture politiche, economiche e sociali» e il ruolo della Russia nel contrasto ai gruppi terroristici in Africa:

«Elogiamo le misure adottate dalla Federazione Russa per assistere gli sforzi antiterrorismo nel continente africano […]. Accogliamo con favore i progressi compiuti nel quadro della cooperazione delle pertinenti agenzie governative russe e africane, reciprocamente riconosciute nella lotta contro il finanziamento del terrorismo e il riciclaggio di denaro, e speriamo nella continuazione degli sforzi congiunti per sradicare questi flagelli».

Il nodo della guerra in Sudan

Il contrasto con gli insuccessi diplomatici francesi non potrebbe essere più netto: l’annuncio ciadiano della rescissione dell’accordo di cooperazione militare con Parigi ha coinciso niente meno che con la visita del ministro degli Esteri francese (del governo Barnier) Jean-Noël Barrot in Ciad. Secondo alcune interpretazioni la decisione di N’Djamena costituirebbe una rappresaglia per le accuse, formulate dal governo sudanese e avallate da France 24 e altri organi di stampa francesi, secondo cui il Ciad sarebbe complice dei ribelli delle Forze di supporto rapido (Rsf) del generale Hemetti che combattono contro le forze armate sudanesi, che rispondono al generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio sovrano del Sudan (Tsc). Il Ciad protesta da sempre la sua neutralità, anche se è dimostrato che armi per i ribelli passano attraverso il suo territorio e che gli ospedali costruiti con fondi degli Emirati Arabi Uniti (sostenitori di Hemetti) curano feriti delle Rsf.

Per quanto riguarda la guerra civile in Sudan, la Russia risulta molto più implicata del Ciad, con l’originalità di aver cambiato bandiera nel corso del conflitto: mentre inizialmente appoggiava Hemetti, in forza soprattutto dei rapporti d’affari fra lui e il fondatore della Wagner Prigozhin (armi in cambio di oro), dalla primavera scorsa sostiene ufficialmente il Tsc, che riconosce come governo legittimo del paese.

I motivi del ribaltamento di alleanze riguardano la prospettiva di ottenere una base navale sul Mar Rosso a Port Sudan, l’allineamento con la politica estera dell’Iran (che sostiene il Tsc in opposizione agli Emirati che sostengono Hemetti) e la volontà di convincere Al-Buhran a rompere i rapporti con Kiev, che ha fornito droni ed expertise alle sue forze. L’Ucraina ha rivendicato l’addestramento dei separatisti tuareg all’uso dei droni d’attacco che hanno decimato i mercenari della Wagner nel luglio scorso in Mali. La cosa non è stata apprezzata dai paesi africani: Mali e Niger hanno rotto le relazioni diplomatiche con Kiev, e la Comunità degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas, che pure non è in buoni rapporti coi militari di Mali e Niger) ha condannato l’azione in un suo comunicato esprimendo «ferma disapprovazione e condanna di qualunque interferenza straniera nella regione che possa costituire una minaccia alla pace e alla sicurezza nell’Africa occidentale e ogni tentativo di trascinare il continente negli attuali conflitti geopolitici».

@RodolfoCasadei

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