La sentenza n. 45426 del 2024 chiarisce che la pendenza di un condono edilizio non sospende automaticamente un ordine di demolizione. Servono prove concrete sull’esito e sui tempi delle pratiche, bilanciando legalità urbanistica e diritti dei proprietari.
La demolizione di opere abusive è una delle problematiche più controverse nel diritto edilizio. Molti proprietari confidano nelle istanze di condono per sospendere un ordine di demolizione, ma le condizioni per il loro accoglimento sono tutt’altro che scontate. Questo tema è stato al centro della recente sentenza n. 45426 del 2024, che ha esaminato il caso di un immobile abusivo per il quale erano state presentate quattro istanze di condono.
Nonostante tali richieste, il giudice penale aveva disposto l’esecuzione della demolizione, suscitando il ricorso dei proprietari, che contestavano la legittimità dell’ordinanza sulla base della pendenza delle pratiche di condono. In questa sentenza, la Corte di Cassazione ha chiarito i limiti entro cui un condono può influire su un ordine di demolizione, bilanciando il rispetto della legalità urbanistica con i diritti dei proprietari.
Quali sono dunque i criteri per cui un condono può sospendere una demolizione? E quali responsabilità gravano su chi eredita immobili abusivi?
Analizziamo i dettagli di questo caso per rispondere a queste domande.
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Il caso: contestazioni e linea di difesa dei proprietari
Il caso riguarda un immobile costruito abusivamente, per il quale era stato emesso un ordine di demolizione. I ricorrenti, legati da vincoli familiari al committente originario dell’abuso, hanno contestato l’ordinanza sulla base di diverse motivazioni.
La proprietaria attuale dell’immobile ha sostenuto che la demolizione fosse illegittima a causa della pendenza di quattro istanze di condono edilizio. Secondo la difesa, tali domande avrebbero dovuto sospendere l’esecuzione dell’ordine, dato che la loro definizione rientra nella competenza esclusiva del Comune. Inoltre, è stato evidenziato che la mancata risposta del Comune alle istanze di condono non poteva essere imputata ai ricorrenti, rendendo quindi inopportuna l’applicazione immediata della sanzione.
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Un ulteriore argomento della difesa è stato la presunta assenza di un interesse reale da parte dell’ente pubblico alla demolizione, soprattutto dopo un lungo periodo di inattività amministrativa. La proprietà ha anche sostenuto che il giudice penale non avrebbe dovuto esprimersi sull’ordine di demolizione, lasciando la competenza all’amministrazione comunale.
Parallelamente, un altro ricorrente, presentatosi come erede del committente originario, ha respinto l’ingiunzione di demolizione sostenendo di non essere il proprietario effettivo dell’immobile. La sua difesa si è basata sul fatto che l’immobile non risultava formalmente trasferito a lui iure successionis. In questo contesto, è stato sottolineato che, in assenza di prove documentali sulla titolarità , non poteva essere chiamato a rispondere per un abuso edilizio a cui era estraneo.
La difesa ha quindi articolato una strategia su due fronti: da un lato, l’inefficacia dell’ingiunzione per via delle domande di condono pendenti; dall’altro, l’assenza di una connessione giuridica diretta tra uno dei ricorrenti e la proprietà del bene abusivo.
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La decisione del giudice e le sue motivazioni
La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 45426 del 2024, ha esaminato con attenzione i ricorsi, adottando decisioni differenziate per i due casi presentati. La proprietaria dell’immobile abusivo ha visto il suo ricorso dichiarato inammissibile. Il giudice ha motivato questa decisione sottolineando che, sebbene fossero state presentate quattro istanze di condono edilizio, queste non erano sufficienti per sospendere l’ordine di demolizione.
La Corte ha stabilito che il semplice fatto di avere domande pendenti non può bloccare l’esecuzione della sanzione se non sono presenti elementi concreti che dimostrino una probabile e rapida definizione delle pratiche. Inoltre, le domande risalivano a oltre vent’anni prima, un tempo giudicato incompatibile con l’ipotesi di un esito imminente e favorevole.
Il giudice ha inoltre chiarito che l’inerzia dell’amministrazione comunale non esonera il giudice penale dal proprio obbligo di disporre la demolizione, il cui scopo è il ripristino della legalità urbanistica.
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Questo principio, sancito dall’art. 31 del DPR n. 380/2001, attribuisce al giudice un potere autonomo che non dipende dalle tempistiche o dalle eventuali omissioni del Comune.
Per quanto riguarda il secondo ricorrente, indicato come erede del committente dell’abuso, la Corte ha accolto parzialmente le sue motivazioni. Il giudice ha ritenuto necessario verificare con maggiore approfondimento la sua effettiva titolarità rispetto all’immobile abusivo.
La Corte ha stabilito che l’ingiunzione di demolizione non può essere rivolta a un soggetto che non sia proprietario effettivo del bene. In assenza di prove documentali che dimostrino il trasferimento del bene iure successionis, la responsabilità diretta dell’erede non può essere presunta. Di conseguenza, è stato disposto un rinvio alla Corte d’Appello per ulteriori accertamenti sulla titolarità e sulle responsabilità collegate.
La decisione della Corte, quindi, bilancia due esigenze fondamentali: da un lato, l’applicazione rigorosa delle norme per tutelare la legalità urbanistica; dall’altro, la necessità di garantire che le responsabilità personali siano attribuite solo a chi risulti giuridicamente titolato, evitando di estendere obblighi così incisivi a chi non abbia un legame diretto con l’abuso edilizio.
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