Come da oltre 60 paesi in tutto il mondo, anche in Arabia Saudita l’allarme sull’uso di droga ha innescato un drastico cambiamento nelle tattiche di repressione, prevedendo un ampio utilizzo di punizioni severissime fino alla pena di morte
Negli ultimi anni una delle maggiori fonti di finanziamento del regime siriano è stata la produzione ed esportazione del captagon, una droga sintetica ampiamente utilizzata anche da parte dei jihadisti, che ha arricchito le casse di Assad grazie alle esportazioni verso sud. Captagon è il marchio registrato d’un medicinale psicoattivo prodotto negli anni 60 dalla tedesca Degussa Pharma Gruppe che veniva prescritto per il disturbo da deficit di attenzione, la narcolessia e come stimolante del sistema nervoso centrale. Le compresse contengono fenetillina, una sintesi della fenetilamine a cui appartiene anche l’amfetamina.
Nel 1986, la fenetillina è inclusa nella Tabella II della Convenzione dell’Onu sulle sostanze psicotrope del 1971 e la maggior parte dei paesi ha interrotto l’uso medico di Captagon. Nel 2011 l’International Narcotics Control Board ha reso noto che nessun paese aveva prodotto fenetillina dal 2009. Come spesso accade, la proibizione non ha funzionato e il mercato illegale ha visto un boom negli anni successivi alla “primavera araba” del 2011 in Siria diventando una delle forme di finanziamento di aggressori, aggrediti, al-Qaeda e Stato islamico. Ora che il regime siriano è caduto, e gli insorgenti si stanno sistemando a Damasco, la domanda interna di captagon potrebbe diminuire, ampliando l’offerta verso l’estero, in particolare l’Arabia Saudita. Qualche giorno prima della fuga di Assad a Mosca, le guardie di frontiera saudita hanno sequestrato più di 300mila compresse di captagon in uno dei valichi tra Arabia e Giordania. In quegli stessi giorni, nel sud-ovest del paese, vicino allo Yemen, le autorità hanno giustiziato sei persone per aver tentato di contrabbandare hashish e anfetamine.
Come da oltre 60 paesi in tutto il mondo, anche in Arabia Saudita l’allarme sull’uso di droga ha innescato un drastico cambiamento nelle tattiche di repressione, prevedendo un ampio utilizzo di punizioni severissime fino alla pena di morte. Nel 2024 il Regno ha eseguito quasi 100 esecuzioni per reati legati alla droga sulle 304 registrate in totale, l’anno scorso erano state due. Le confische e le esecuzioni di questi ultimi giorni fanno parte dell’inasprimento della guerra alla droga saudita. Il Regno è da tempo un obiettivo primario per i trafficanti di droga nella regione sia per il potere d’acquisto delle sue classi più abbienti sia per i lunghi confini desertici con Giordania e Yemen e la costa disabitata che facilitano il narcotraffico. I dati ufficiali sul consumo di droga in quel paese sono scarsi, ma lo scorso anno il ministero della Salute ha stimato più di 200mila “tossicodipendenti compulsivi” sui 32 milioni di abitanti del Paese – in Italia, che ha quasi il doppio della popolazione ce ne sono poco più di 120mila.
All’inizio di dicembre gli esperti dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali hanno pubblicato un rapporto in cui si esprime allarme a seguito di tre esecuzioni, chiedendo al governo saudita di fermare immediatamente quella imminente degli egiziani Rami Gamal Shafik al-Najjar e Ahmed Zeinhom Omar e del giordano Adnan al-Shraydah. I due egiziani, parte dei 28 connazionali attualmente nel braccio della morte nella prigione di Tabouk, sarebbero stati trasferiti in una cella di esecuzione il 27 novembre 2024 e sono stati costretti ad assistere all’esecuzione di altri detenuti mentre attendevano il loro turno. Il giordano, che ha gravi problemi di salute, non ha ricevuto cure adeguate in prigione. Per il rapporto sembra che “L’Arabia Saudita abbia revocato una moratoria, non ufficiale, annunciata nel 2021 per reati legati alla droga […]; le esecuzioni di cittadini stranieri sembrano avvenire sempre più senza previa notifica ai condannati a morte, alle loro famiglie o ai loro rappresentanti legali […]. I cittadini stranieri si trovano spesso in una situazione di vulnerabilità e hanno bisogno di misure specifiche per garantire l’accesso alle tutele legali al momento dell’arresto, durante gli interrogatori e tutto il procedimento giudiziario, incluso l’accesso all’assistenza consolare”.
L’applicazione discriminatoria della pena di morte nei confronti dei non sauditi, il 75% di tutte le esecuzioni per reati di droga, ha fatto lanciare un appello a Ryad, affinché “riveda le decisioni giudiziarie contro individui nel braccio della morte, al fine di commutare le loro condanne nel rispetto dei requisiti del giusto processo e dei principi di proporzionalità, equità e giustizia nella condanna”. Gli esperti hanno inoltre invitato il governo saudita ad “adottare senza indugio le misure legislative necessarie per abolire la pena di morte per reati che non comportano l’omicidio intenzionale”. Oltre a non esserci alcuna prova che la pena di morte sia efficace nel dissuadere dal crimine, c’è l’aggravante di un paese che investe miliardi in campagne di pubbliche relazioni per dimostrarsi in fase di ammodernamento ma che nelle sue galere insiste con gravissime violazioni dei diritti umani.
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