Un viaggio in Italia da sud a nord e attraverso rotte marine: questo il percorso che Dominique White ha svolto nella nostra penisola prima di approdare a Reggio Emilia con quattro opere. L’artista britannica è la nona vincitrice del Max Mara Art Prize for Women 2022-2024, premio biennale conferito alle artiste emergenti nel Regno Unito e che è frutto della consolidata collaborazione tra la Collezione Maramotti di Reggio Emilia e la galleria londinese Whitechapel.
“Deadweight”, in mostra sino al 16 febbraio 2025, portata lorda della nave, è il titolo di conclusione e sintesi di questa itinerante residenza d’artista che ha per fili conduttori il tema della decolonizzazione, delle rotte schiavistiche del mare, di ciò che emerge dai naufragi. In questa mostra temporanea, il visitatore si trova così di fronte a grandi sculture in cui domina il ferro, apparentemente fragile e molto contorto, simbolo evocativo del residuo marino e anche della forza rinascente della consapevolezza black.
Frammenti di mogano bruciato, catene e corde, oltre ad altri materiali in forma grezza, completano l’elenco degli elementi concreti usati dall’artista per proporci delle apparenti carcasse animali straziate dalla storia ma pronte a risorgere. “dead reckoning”, “ineligible for death”, “split obliteration” e “the swelling enemy” (tutto volutamente minuscolo) sono i titoli delle opere in mostra che ci rimandano a una terminologia legata alla tragedia del mare.
Essere non candidabili alla morte oppure evocare il nemico gonfiore ci racconta un passato (e forse anche un presente) caratterizzato dallo sfruttamento secolare di esseri umani da parte di altri esseri umani. Ma anche tedoforo di un messaggio augurale: la possibilità di costruire un mondo differente, un mondo migliore. Sono messaggi che l’artista esprime anche nel video che accompagna la mostra.
Après moi le déluge! (O anche après nous!) Sono parole attribuite al re di Francia Luigi XV in occasione di un colloquio con la celebre influencer (si direbbe oggi) Madame de Pompadour in pieno ‘700 qualche decennio prima della celebre Rivoluzione. “Attraverso i diluvi” è il titolo dell’altra mostra temporanea e collettiva che la Collezione Maramotti ha inteso portare alla nostra attenzione per riflettere sull’impatto e le conseguenze che possono avere le catastrofi sull’immaginario e la vita reale delle persone.
Visitabile anch’essa sino al 16 febbraio 2025, la mostra copre un arco temporale che ha per estremi il millennio antecedente a Cristo e l’anno in corso. La foto cover è espressa da due pezzi di cemento e pigmenti del milanese Federico Tosi: è una piccola opera scultorea concettuale spezzata in due parti che ha per titolo “Ariel (Cuori in Antartide)”, richiamando dunque l’angelo ebraico della cura e dell’ira. Invertendone la sequenza, si racchiude uno dei sottotesti della mostra che ferma il tempo subito dopo il passaggio della catastrofe.
In un contesto tematico di impotenza umana di fronte alla impietosa forza della natura, non poteva mancare Anselm Kiefer con un quadro dal soggetto insolitamente figurativo ed emblematicamente intitolato “Deutschland in der Nacht”. Semplice nella sua grande forza è una fotografia dell’irlandese Ivor Prickett, abituale testimone di conflitti bellici, che ritrae una anziana signora musulmana seduta, Nadhira Rasoul, seduta davanti alle immani rovine causate dalla battaglia di Mosul, la città irachena capitale dello Stato Islamico di Daesh.
L’opera in mostra più antica (XII secolo a.C.) è una coppia di statuette funerarie egizie in legno dipinto, mentre varie sono le opere del 2024 visibili. Tra queste, lo schermo blu della morte è l’oggetto raffigurato dal vicentino Alessandro Fogo, avvezzo a una concettualità artistica ricca di riferimenti simbolici e di una costante prassi all’epifania, all’improvvisa apparizione del soggetto (“Blue Screen of Death”).
Chi ci ha raccontato molto della catastrofe e della distruzione dell’animo umano è sicuramente Francisco Goya, presente in mostra con tre stampe tratte dalla serie “Desastres de guerra”. Rappresentano una mirabile sintesi dello spirito indignato dell’artista, a fronte della miseria provocata dalle battaglie e dallo sciacallaggio umano (la prima delle tre scene mostra cadaveri denudati da chi se n’è approfittato); a completare la giusta rabbia di Goya ci sono anche il dolore della madre che piange la morte della figlioletta e la fucilazione come atto di sopraffazione.
Anche grazie alle sue ragguardevoli dimensioni, campeggia un grande dipinto di Filippo Palizzi che sembra indicare uno degli scopi della mostra: “Oltre il diluvio” è infatti un mirabile esempio di pittura pura, con la raffigurazione degli animali che sopravvivono al diluvio biblico e si reimpossessano del mondo. Un arcobaleno appena accennato è un segnale di rinascita e la natura, anch’essa appena accennata, ci sembra già florida e non più tenebrosa come quella romantica appena antecedente al periodo in cui Palizzi visse e operò.
Impossibile enumerare qui il ventaglio di materiali usati e la varietà di tecniche e stili di una collettiva che, come il diluvio del titolo, attraversa i secoli e le epoche. Val la pena sottolineare l’elemento di collaborazione tra la Collezione Maramotti e altre istituzioni del territorio come la Biblioteca Panizzi e i Musei Civici che, grazie ad alcuni prestiti mirati, iscrivono la propria denominazione in questa rassegna di circa 60 opere capaci di sollecitare una riflessione sul senso di ‘rovesciamento’ della nostra esistenza che la catastrofe impone dopo.
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