«Investire sul sociale è la premessa per lo sviluppo economico»

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Trasferire le risorse le risorse al sud per ridurre il divario del Pil, senza investire sul sociale, non crea sviluppo. «Non è che non siano necessari i trasferimenti di risorse finanziarie, ma se non incontrano la responsabilità dei soggetti locali diventano moltiplicatori di dipendenze». È questo il punto da cui parte Carlo Borgomeo, che è stato per 14 anni presidente della Fondazione Con il Sud, una no profit che promuove percorsi di coesione sociale per favorire lo sviluppo del sud Italia, e profondo conoscitore delle dinamiche socio-economiche del Mezzogiorno.     

A che punto è la coesione territoriale nel nostro paese?

La coesione territoriale, nel linguaggio comune, significa la coesione del paese: su questo mi pare che siamo messi piuttosto male. La presidente del Consiglio ha recentemente affermato che il Mezzogiorno è diventato la locomotiva dello sviluppo italiano. Un’affermazione basata su un paio di decimali del Pil che il sud ha avuto, probabilmente grazie ai fondi del Pnrr. Qualche giorno dopo la Svimez (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno, ndr) ci ha ricordato che questo incremento maggiore, peraltro molto basso, è destinato già dal prossimo anno a essere capovolto. E quindi vedremo la forbice riallargarsi.

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Penso che dopo 75 anni, in cui le politiche sono state impostate con questa logica quantitativa – trasferire le risorse per ridurre il divario del Pil – bisognerebbe rovesciare il paradigma e investire sul sociale, nella consapevolezza che l’investimento sul sociale vada premessa anche per lo sviluppo economico.

È difficile rispondere perché c’è una grandissima differenza tra territori. Di certo, l’operazione di rafforzamento della dimensione comunitaria, e quindi di processi di coesione veri, riesce solo in un lasso di tempo lungo, necessario per consolidarsi. Le operazioni presentate come vincenti nel giro di due o tre anni non hanno la solidità necessaria.

Dal mio punto di vista sono ancora molto poche, ma le esperienze sono comunque molto più numerose di qualche anno fa. Esiste la consapevolezza che rafforzare la dimensione comunitaria dei territori sia importante.

Le politiche pubbliche spesso giocano sul piano dell’offerta. Cosa comporta?

Nella mia vita sono stato soprattutto un soggetto di offerta, perché la fondazione Con il Sud è “di erogazione” quindi dà i soldi. È chiaro che l’offerta determina la domanda. Occorre però capire quale postura ha l’offerta. Se ho deciso gli obiettivi, le procedure e i requisiti, l’offerta diventa onnivora, si mangia tutto, e la domanda non può che tentare di adeguarsi all’offerta.

L’offerta, invece, può ragionare nel senso di essere alleata della domanda. Ad esempio, dopo qualche anno alla Fondazione Con il Sud, mi è venuta l’idea di fare un’operazione totalmente sulla domanda, facendo un bando senza contenuti. Abbiamo quindi detto: la Fondazione Con il Sud vuole finanziare progetti innovativi. Sono arrivati 1.150 progetti. Scoprimmo che c’era una domanda che noi non conoscevamo: su 1.150, 38 progetti erano dedicati a interventi nelle carceri. Una linea che la fondazione non aveva, e che da quel momento ha cominciato ad avere.

Inoltre, il bando si può fare in molti modi: ci sono bandi prescrittivi e bandi più aperti. Se si fa un bando più aperto, si dà più spazio alla domanda. Si può fare una valutazione in due momenti, dove in una prima fase si valuta solo l’idea e la relazione tra la compagine che si propone e l’idea, senza alcuna progettazione. Penso che strutturalmente nelle politiche pubbliche ci sia un eccesso di potere da parte di chi gestisce le procedure.

Ci sono casi in cui l’offerta può stimolare la domanda. Avere una biblioteca di quartiere può far nascere un’esigenza che altrimenti non sarebbe emersa. Qual è l’equilibrio tra la dimensione comunitaria e l’intervento istituzionale?

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Le esperienze, a mio parere, dipendono dalla qualità dei soggetti sociali del terzo settore; ma dipendono molto anche dalla disponibilità della pubblica amministrazione. Il punto decisivo è: come si interpretano le politiche di coesione? Il welfare che la mia generazione aveva come modello non c’è più.

Non perché ci sono pochi soldi, ma perché non c’è più il fondamento di quel welfare, caratterizzato dal primato assoluto del pubblico. Un sistema in cui i servizi e la sanità sono di responsabilità pubblica, in cui il terzo settore viene chiamato nei momenti di emergenza, gioca il ruolo della ruota di scorta o, nei casi più illuminanti, realizza delle esperienze molto innovative che la pubblica amministrazione poi introietta. Non è più così.

Occorre riconoscere al terzo settore la capacità di gestire gli interventi, senza ricevere mandato e delega dentro un quadro in cui altri hanno deciso. Non si può per tutta la vita inseguire, senza mai poter decidere e imporre dei cambiamenti. Il terzo settore deve acquisire una dimensione politica, si deve percepire come un soggetto di cambiamento.

Questo ha conseguenze per esempio sul mondo della filantropia tradizionale. Secondo me non ha più senso, perché non può continuare a essere uno strano supplemento di risarcimento ai mali del sistema. In questo processo di evoluzione, il terzo settore deve iniziare a percepire come plausibile il conflitto.

Il conflitto avrebbe una grande forza: un conto è che si faccia una manifestazione chiedendo il riconoscimento dei diritti, un conto è lo si faccia mentre c’è un lavoro concreto per riconoscerli. C’è una forza maggiore.

Il terzo settore è centrale anche per creare e stimolare la domanda. Qual è la sua idea di sviluppo dei territori? Come si concilia con l’idea di sviluppo prevalente?

Penso che non ci possa essere sviluppo senza un minimo di voglia di sviluppo. Non è che non siano necessari i trasferimenti di risorse finanziarie, ma se questi trasferimenti non trovano una responsabilità dei soggetti locali diventano moltiplicatori di dipendenze.

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Allora, perché il terzo settore è importante? Non penso che lo sviluppo di un territorio sia in mano al terzo settore, anche se vale la pena ricordare come diverse realtà fanno lavorare centinaia di persone. Non è che mille cooperative possano cambiare il sud, ma quel tipo di intervento può cambiare il sud.

Perché in Calabria ci sono così pochi asili nido? La riposta di tutti è: “Per forza, la Calabria è povera”. Ma se iniziassimo a dire il contrario? Che è una regione in cui per anni non ci sono stati investimenti nel sociale. È ora di mettere al primo posto queste questioni.

Il terzo settore è un formidabile accumulatore di capitale sociale, che costruisce mano a mano la comunità. Il grande sforzo da fare è che il sociale venga prima dell’economico. Naturalmente si può dire che è una forzatura, ma l’obiettivo è pareggiare, perché le politiche mettano insieme il sociale e l’economico.

Infine, le reti e le alleanze nel terzo settore si creano solo se c’è un giudizio politico condiviso sulle questioni del territorio in cui si lavora. Torno, ancora una volta, al fatto che la dimensione è politica.

Questo contenuto giornalistico fa parte del progetto “#CoesioneItalia. L’Europa vicina”, che è finanziato dall’Unione europea. I punti di vista e le opinioni espresse sono tuttavia esclusivamente quelli dell’autore e non riflettono necessariamente quelli dell’Ue. Né l’Ue né l’autorità che eroga il finanziamento possono essere ritenute responsabili per tali opinioni.

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