Un dono del Giubileo? Zuppi: «Il mondo cancelli i debiti dei Paesi poveri»

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di
Gian Guido Vecchi

Parla il presidente della Cei, cardinale Matteo Maria Zuppi.«Il senso del Giubileo è misurarsi con le proprie debolezze ma ritrovare la speranza anche attraversando i nostri problemi»

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«In fondo, il Giubileo apre il cammino anche dove sembra non ci sia. L’indicazione del carcere, la porta santa che papa Francesco aprirà a Rebibbia, è evidente: dove sembra non ci sia nessun futuro, si apre al contrario una strada, una possibilità di rinnovamento. Questa è la grandezza del Giubileo». Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, è presidente dei vescovi italiani dal 2022. Un anno più tardi, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, papa Francesco lo ha scelto come suo inviato per la «missione di pace» che lo ha portato a Kiev, Mosca, Washington e Pechino. Ne sa qualcosa, di cammini che sembrano non esistere, «ma la pace va cercata con ostinazione».

Eminenza, il tema del giubileo è la speranza. Di questi tempi può apparire illusorio, no?
«Vede, il giubileo non è mai qualcosa di catartico, è diverso dall’idea un po’ consumista e nichilista di un nuovo inizio che annienta ciò che è stato, come la ricerca di qualcosa di totalmente nuovo che ha poco o nulla a che fare con la storia. Invece c’è memoria, c’è la richiesta di perdono nelle difficoltà del presente, nella storia che rovina tutti e segna la fragilità di ciascuno. Il senso del Giubileo è misurarsi con se stessi, con la propria debolezza e fragilità, ma in questo ritrovare anche la speranza che si misura con i problemi concreti, una speranza che non è chiudere gli occhi ma aprirli. Non si tratta di evitare dolori e tragedie, se mai il contrario: è entrarci dentro, perché è nel buio che cerco la luce, è nell’ingiustizia che cerco la giustizia, è nella guerra che cerco la pace».

L’indulgenza, il perdono. Cosa direbbe a chi lo vede come qualcosa di remoto, un retaggio medioevale?
«Che è esattamente il contrario: un grande momento di consapevolezza nel presente. Non è fatalismo o provvidenzialismo. Certo, al fondo c’è la cognizione che senza Dio non possiamo fare nulla, che non dobbiamo stancarci di pregare il Signore per la pace. Ma questo non significa dire: ci pensa Lui. Devi fare di tutto perché si possa realizzare ciò che Dio vuole».

E come si fa?
«Rendersi conto di tutto questo ci dà una grande responsabilità personale: comincia da me. Non è solo quello che fanno gli altri, perché le cose cambino devi iniziare tu stesso. È l’occasione di liberarsi da tutto ciò che ha preparato e prepara la guerra. La guerra come fabbrica di ingiustizia, la guerra che genera l’ingiustizia e la accresce. Lo stesso discorso vale per la richiesta di remissione del debito dei Paesi poveri: cancellare tutto ciò che genera ingiustizia e disuguaglianza. Il Giubileo può diventare una grande opportunità di esercitarsi nell’arte della pace e non della guerra. Essere consapevoli di questo, ci fa recuperare l’interiorità e non solo la psicologia».

Qual è la differenza?
«Misurarsi con Dio ci aiuta a essere noi stessi. Significa rivolgersi a un Dio che è un Tu, non un’entità generica che chiede poco o magari quello che voglio io. È con l’altro, un vero Altro, che ci confrontiamo per trovare noi stessi. Francesco ha parlato della tentazione di voler essere come Dio. Questo ferisce l’umanità. La presunzione dell’autosufficienza, l’esaltazione di sé, la mancanza di rispetto per gli altri, l’idea del possesso che considera l’altro come un oggetto o un fastidio. Nel Giubileo ristabiliamo le misure. Si tratta di rientrare in noi stessi. Di riconoscersi bisognosi del perdono di Dio».

E lei pensa che la gente avverta questo bisogno?
«La misericordia non è buonismo, un saldo di fine stagione. È la mia soffrenza a farmi capire il perdono, ad essere l’inizio del perdono. Perché il perdono non dipende dai meriti ma è legato alla fiducia. Capisco la misericordia se ne sento il bisogno. E nel mondo c’è un enorme bisogno di speranza, espresso in tanti modi».

Non è arduo fare queste riflessioni in un mondo sempre più indifferente alla fede?
«Benedetto XVI osservava che proprio nel deserto si cerca l’acqua. È vero, c’è una desertificazione spirituale, c’è tanto materialismo, il materialismo anzi ha stravinto e condiziona la vita, i valori, le scelte, le prestazioni, il modo stesso in cui si giudica la propria vita. Però, in questo deserto, si sente ancora più sete. Ecco: io penso che questo clima aiuti la Chiesa a ritornare all’essenziale, a parlare di nuovo della sua speranza e a farlo in maniera più diretta, più personale. L’ultima enciclica di Francesco parla del cuore, di una capacità di comprensione più profonda della sofferenza dell’uomo digitalizzato».

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Ma l’uomo digitalizzato, Lui, lo comprende?
«Tante persone cercano attenzione, hanno una dimensione spirituale che appartiene a tutti. Talvolta mancano le parole o le categorie per dirlo, e si pensa che le categorie della Chiesa siano distanti, lontane, altre. Invece sono molto più vicine di quanto si immagini. Il Giubileo è una grande opportunità di riaccendere la speranza. Anche la speranza oltre la vita».

La morte, il grande rimosso del nostro tempo…
«Eppure la grande domanda, per tutti, è ciò che resta della mia vita, quello che sarà dopo. Anche se rimossa, è sempre presente. Perché è evidente che il problema della morte lo vediamo in tutte le cose. Vivendo nel materialismo, sei condannato all’oggi, cerchi risposte solo nel presente, ma la domanda intorno al futuro rimane, è inevitabile. E con essa la speranza della vita che non finisce ma risorge».

Questo articolo appartiene allo speciale Giubileo 2025
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19 dicembre 2024 ( modifica il 19 dicembre 2024 | 23:38)

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