Se c’è un’emergenza, chiamate Aliph –

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La capacità di risposta rapida di Aliph è in parte dovuta alla sua struttura relativamente piccola e al breve processo decisionale. Il team interno seleziona i progetti, che vengono poi valutati dal comitato scientifico di esperti. Le decisioni prese da questo comitato possono essere approvate celermente dal consiglio della fondazione, composto da rappresentanti degli Stati membri e da donatori privati, senza dover tornare dagli Stati membri per ottenere finanziamenti o approvazioni. Questo sistema la distingue da altre organizzazioni per la tutela del patrimonio, in particolare dall’Unesco, che molti operatori del settore considerano ostacolata dalla burocrazia. «Bisogna tenere ben presente che quando inizia la guerra, le cose sono molto diverse dalla vita normale, afferma Kovalchuk. Per esempio, era quasi impossibile trovare estintori, pannelli per proteggere le finestre o materiali per imballaggio. E per le opere in arrivo qui da altri musei in cui non erano al sicuro, abbiamo deciso di pagare i corrieri perché le portassero fin dentro le sale». Ma invece di dover chiedere l’approvazione per i costi extra, Aliph ha consentito loro di intervenire in modo rapido e certo. 

Le fonti da noi interpellate sostengono che la natura non politica di Aliph è un suo ulteriore punto di forza. Questo potrebbe sembrare un controsenso per un’iniziativa di soft power, eppure il curriculum di Aliph mostra la volontà di lavorare in aree politicamente sensibili. Lo Yemen, ad esempio, dove gran parte delle distruzioni sono state causate dai missili degli Emirati e dell’Arabia Saudita, o l’Afghanistan, dove l’Unesco attualmente non lavora a causa della «politica di non coinvolgimento» dei suoi Paesi membri nei confronti dei talebani. È quindi grazie ad Aliph che alcuni dei siti più vulnerabili possono ricevere gli aiuti primari di cui hanno bisogno. Il patrimonio culturale non è un territorio neutrale. Gli investimenti dei Governi stranieri nei beni storico artistici di altri Paesi sono spesso effettuati in un’ottica di potere politico o di interessi economici. Ci sono anche sfumature di (neo)colonialismo, o perlomeno di paternalismo, nel perdurare del modello di ricchi stranieri che arrivano per salvare un sito antico in un Paese «in via di sviluppo». «Se da un lato le iniziative di conservazione del patrimonio culturale sono disperatamente necessarie, vista l’attuale situazione internazionale e le continue distruzioni, dall’altro è altrettanto necessario decolonizzare e riformare le pratiche arcaiche stabilite in epoche passata, coloniali e imperialiste, afferma la storica dell’arte iracheno-americana Nada Shabout. Collaborare con gli esperti locali e prestare attenzione alle preoccupazioni dei residenti sono questioni essenziali e devono essere pratiche prioritarie in ogni agenda internazionale. Dobbiamo sempre ricordare che il patrimonio è per tutta l’umanità, ma prima di tutto è una realtà viva per le popolazioni locali». 

Gli standard occupazionali spesso differiscono per i lavoratori del luogo e quelli stranieri, e le agenzie a volte lavorano per sostenere il patrimonio edilizio di una comunità che è fuggita, per esempio l’enclave cristiana nel Nord dell’Iraq. Sono problemi più grandi di Aliph e vanno bilanciati rispetto al bene ultimo della protezione del patrimonio, ma non possono essere ignorati nel momento in cui si è chiamati a valutare i successi dell’organizzazione. Un’ulteriore sfida che Aliph deve affrontare è, purtroppo, il suo stesso ottimismo. L’organizzazione si è presentata come un risolutore di problemi, una risposta alla minaccia posta dall’Isis e, in seguito, come uno strumento agile per affrontare le sfide in corso poste da altri conflitti e dal cambiamento climatico. Ma anche nel breve lasso di tempo della sua esistenza, parte del suo lavoro è stato vanificato: sono stati segnalati scontri nei pressi dell’isola di Meroe, in Sudan, che Aliph, in quanto parte di un’équipe coordinata dall’Unesco, aveva stabilizzato dopo l’inondazione del 2020-21; e ovviamente sono a rischio i suoi progetti realizzati a Gaza, tra cui la conservazione di un antico monastero e di una casa di epoca ottomana (completati con l’agenzia palestinese Riwaq). Aliph prevede di attuare misure di emergenza nei due Paesi non appena potrà di farlo, ma oggi non può ancora operare sul campo. La sensazione è di fare un passo avanti e due indietro. Oltre al costo umano e storico di questi danni, la situazione si ripercuote anche sul bilancio: i donatori continueranno a stanziare fondi in aree vulnerabili se le cause di un conflitto persistono? 

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