Havas ha presentato al Mudec una ricerca condotta sull’importanza e la valorizzazione dell’arte e della cultura in Italia
In Italia, parlare di cultura e di impresa sembra un po’ come seguire linee rette su uno stesso piano, ma quasi mai convergenti. Geometrie a parte, la realtà delle due protagoniste in questione è che da noi viaggiano spesso parallele e anche a diverse velocità, specie rispetto ai contesti-competitor europei.
«Siamo il fanalino di coda negli investimenti statali nelle classifiche dell’Unione Europea», afferma Maurizio Luvizone, consulente in management delle organizzazioni no profit, culturali e scientifiche, nonché Senior Advisor di Havas, l’agenzia di comunicazione che ha presentato il 26 novembre al Mudec – Museo delle Culture di Milano una ricerca proprietaria, condotta per analizzare la percezione del grande pubblico sull’importanza e la valorizzazione della cultura in Italia.
«Abbiamo investimenti pari allo 0,9 per cento del Pil e circa lo 0,3 per cento della spesa totale dello Stato – continua Luvizone – Francia e Inghilterra spendono il doppio, la Spagna il triplo, mentre l’Estonia o la Bulgaria cinque volte tanto». E se negli ultimi quindici anni la spesa pubblica in generale è aumentata del 65 per cento, nel Bel Paese per la cultura si spende oggi il 30 per cento in meno.
Sono già dati che dicono molto sul nostro sistema, facendoci piazzare agli ultimi posti per investimenti in e per “consumo” di cultura, mentre abbiamo paradossalmente un patrimonio – di fatto, nei numeri – su cui si potrebbe invece “contare” molto.
L’indagine realizzata in Havas dall’Osservatorio Arte e Cultura di CSA (è la sigla dedicata ad accelerare la comprensione e migliorare i risultati di business delle imprese attraverso analytics e soluzioni di machine learning, ndr.), infatti, richiama alla memoria i nostri 80 milioni di “pezzi” di inestimabile valore.
Il Bel Paese, per dare solo una vaga idea, conta 50 siti Unesco, 4900 musei, 1600 teatri e 1200 dimore storiche (dei quasi trecento castelli censiti solo in Umbria, ne sapevate qualcosa?) ovvero gioielli sparsi sul nostro territorio che nessuno al mondo può vantare. Materia prima e anche preziosa, se vista in un’ottica nuova.
Bellezze di cui noi italiani per primi, magari, non siamo consapevoli. Parliamo di capolavori sicuramente poco valorizzati, evidentemente mal comunicati e, ancor meno, presi in considerazione non solo dal pubblico ma, colpevolmente forse, oggi anche dal privato.
È su quest’ultimo nodo che si concentra, infatti, il focus della questione, sul sodalizio tra arte e impresa che, invece, si farebbe bene a considerare in una luce diversa rispetto al passato, per affrontare meglio il presente del nostro sistema Paese. E non si tratta di teorie. Ne è la prova la stessa percezione che restituiscono fasce d’età diverse in materia, in quel migliaio di intervistati nel campione coinvolto dall’indagine.
Non è un caso se, quindi, le imprese vedono incrementare la propria brand reputation quando accrescono il loro impegno nel settore dell’arte e della cultura (influendo in tal caso sulla buona percezione anche dei propri prodotti e servizi, per il 90 per cento degli intervistati e, per l’89 per cento del campione, persino incentivando la volontà d’impiego in esse – fenomeno dell’employer branding) ma ci sono due dati su tutti che scrivono un nuovo capitolo sul tema.
Ovvero: la partecipazione delle imprese a sostegno della cultura è auspicata da oltre un italiano su quattro e la quasi totalità degli interpellati ritiene addirittura l’impegno dei privati nell’arte una priorità. E dunque, perché no?
Alcuni come BPER Banca, Fondazione Ermanno Casoli di Elica, Palazzo Ducale di Genova, Deloitte Italia e OGR Torino sono entrati nel dibattito con testimonianze che tracciano alcune risposte e soluzioni che hanno già creato valore. Ma in soldoni, sembrano ancora pochi a giocare la partita.
È uno scenario che offre un’opzione importante infatti e per molti, per recuperare terreno sul trascurato ambito culturale italiano e, al tempo stesso, un’opportunità dal grande potenziale non ancora colta per chi può partecipare al finanziamento del recupero e della conservazione di questo patrimonio.
Ma come portare all’attenzione degli investitori il valore che si può generare? Sicuramente partendo dalla consapevolezza di tale ricchezza: culturale, artistica, territoriale, lavorando sulla sua percezione al mondo e in primis sulla sua fruibilità.
E qui si giunge a un altro punto dolente: lo scarso sostegno pubblico su cui attualmente istituti, musei, teatri possono contare, comporta biglietti d’ingresso a volte non proprio alla portata di tutti e pregiudica spesso la fruizione di eventi e contesti unici. Anche qui perdiamo altri punti in classifica, a livello europeo.
È dunque questo un terreno ancora fertile, dove pubblico e privato possono e debbono convergere, intersecando quelle due rette per creare un nuovo scenario, virtuoso e che vada oltre al mecenatismo, puntando invece a costruire progetti su temi attuali e finalizzati ad un reale e reciproco sviluppo.
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