L’esilio dei maestri e dei discepoli

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Willem van der Vliet, “Filosofo con i suoi allievi”, 1626

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La vasta eco mediatica suscitata dall’ultima fatica letteraria di Marcello Veneziani, Senza eredi. Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella (Marsilio, pagine 336, euro 19,00) sembra relativizzare, anche se non falsificare, l’assunto che guida queste pagine, così come l’autore (dal quale si impara sempre qualcosa anche se non se ne condividono le simpatie politiche) lo propone nell’introduzione a questo bel libro. La tesi si percepisce facilmente fin dal titolo: non ci sono più maestri e di conseguenza eredi/discepoli e questo perché si sarebbe spezzato «il filo d’oro chiamato “cultura”, che è eredità verticale e trasmissione circolare». La mentalità diffusa sarebbe pertanto esclusivamente sincronica, laddove la trasmissione/consegna/tradizione chiedono, al contrario, una sensibilità diacronica. E non si tratta di un’assolta novità, se si pensa che qualche autorevole interprete ha denominato l’età dei Lumi “secolo disermeneutizzato”, intendendo denunziare il rifiuto della tradizione che quell’epoca ha inteso assumere. Ma da lì si è attivato un processo che ha prodotto nuovi maestri e nuovi eredi. Non ogni speranza è perduta e l’attenzione mediatica riservata a questo saggio e alla serie di medaglioni di figure magistrali proposte ci dice che c’è interesse verso la tematica e quindi c’è chi non intende affatto rassegnarsi alla cancel culture.

Un ulteriore elemento di riflessione che Veneziani. ci offre riguarda il rapporto fra politica e cultura: «con il tempo il divario tra politica e cultura s’è ridotto, ma perché la cultura si è abbassata al livello della politica», alimentando il «nanismo smemorato del presente globale». Per quanto alcuni mesi or sono si sia acceso un dibattito circa l’egemonia culturale, cui tenderebbe la destra italiana al governo, non si può non condividere la posizione di Veneziani (espressa anche in un dibattito pubblico con il sottoscritto) secondo cui assistiamo all’egemonia dell’incultura, ovvero al primato sempre più diffuso del “politicamente corretto”. E ciò in sintonia con le tesi di Alessandro Chetta, Woke. I nuovi bigotti. Il politicamente corretto come religione laica (Aras, pagine 252, euro 17,00), che offrono una ulteriore conferma della posizione di Veneziani.

Molto opportunamente, qui si denuncia il venir meno del ruolo dell’università nel necessario tener in vita la relazione maestro-erede: «Non ci sono più maestri – sebbene troppo spesso si parli di lectio magistralis – neppure laddove, per storia, istituzione e professione dovrebbero esserci: all’università». L’eccessiva burocratizzazione di questi luoghi formativi non consentirebbe un’autentica trasmissione del sapere. Per quanto mi riguarda, ora che sono giunto all’emeritato, devo dire che tale fenomeno ha solo sfiorato, e non in maniera così invasiva, le istituzioni accademiche pontificie, che ho avuto il privilegio di abitare per alcuni decenni. E questo perché la trasmissione della cultura, l’interdisciplinarietà e la transdisciplinarietà (di cui tanto si parla in ambito teologico) hanno bisogno di strutture, in quanto il magistero autorevole, la cui mancanza Veneziani stigmatizza, non si può esercitare soltanto attraverso le pubblicazioni di libri, stimolanti come i suoi, e la presenza nei media classici o ipermoderni.

Proprio in queste pagine, allorché si parla del “miracolo fiorentino” individuato nella scoperta di Platone, col decisivo contributo di Marsilio Ficino, non ci si esime dal sottolineare come ci sia stato bisogno di un luogo, la struttura di Careggi, donata da Cosimo de’ Medici, dove si installò l’Accademia fiorentina, frequentata dalle menti più brillanti dell’epoca. Piuttosto dobbiamo interrogarci sul perché, nel nostro contesto (anche ecclesiale), manchino veri mecenati, capaci di individuare e promuovere autentici donne e uomini di pensiero. E allora accade che «i pensatori rimangono per così dire a piede libero, solitudini astrali e viandanti del pensiero, a tratti clandestino; pensatori a volte impersonali, portatori di un pensiero originario, metafisico». Con tutti i loro difetti, i luoghi accademici dove ho lavorato, l’Università Gregoriana, dove ho incontrato i miei maestri, e, come docente, lo scolasticato napoletano della Compagnia di Gesù e l’Università Lateranense, non solo per me, ma per amici e colleghi di grande spessore, sono stati fecondi di relazioni che si sono sviluppate a partire da coloro che amo denominare “le giovani marmotte della teologia” fino ai dottorandi. Diversi dei loro lavori sono stati pubblicati e costituiscono un vero e proprio scaffale all’interno della biblioteca teologica privata e accademica. Interessante, a tal proposito, il termine tedesco che si utilizza per coloro che dirigono le tesi dottorali e quindi se ne assumono la responsabilità accademica e culturale: Doktorvater. E, restando in Germania, come dimenticare l’influsso esercitato da un maestro quale è stato ed è, in quanto ancora in vita, Hansjürgen Verweyen per tanti cattedratici nelle facoltà teologiche di quel paese e in parte del nostro?

Il fatto che «non ancora pensiamo» (Martin Heidegger) purtroppo coinvolge anche la teologia nel nostro drammatico presente. E allora l’auspicio di elaborare un “nuovo pensiero”, che anima l’epilogo del libro di Veneziani, passa attraverso la necessità di un profondo rinnovamento filosofico del sapere teologico. Già in tempi ormai lontani Franz Rosenzweig lo aveva auspicato, partendo proprio dalle note supplementari al suo capolavoro La stella della redenzione (1921), Das neue Denken (1925). Nell’opera principale aveva scritto: «Oggi […] per mantenere la sua scientificità, la filosofia esige che i “teologi” filosofeggino. Certo, i teologi in un senso nuovo. Perché, come mostreremo, il teologo che la filosofia esige in nome della propria scientificità è a sua volta un teologo che esige la filosofia, in nome della propria onestà intellettuale». Ma dove sono le teologhe e i teologi capaci di filosofare (il pensatore non intende filosofeggiare in senso negativo, ma come appunto “filosofare”) in senso nuovo e antico, esperienziale e metafisico?

Uno dei medaglioni che ho trovato più interessanti all’interno della galleria che Veneziani ci offre, è quello dedicato alla figura di papa Benedetto XVI, dal titolo: «Ratzinger: pensiero forte, papato debole». Il dramma del papa-teologo, o se si vuole del teologo-papa, – a detta dell’A. – ha riguardato l’esodo dalla fede della Mitteleuropa. Qui si interpreta il pensiero del papa, ricordando opportunamente che «bisogna oltrepassare la scristianizzazione della nostra epoca, senza vagheggiare ritorni al passato, e insieme scavare a fondo nel suo solco, fino a trovare la matrice cristiana della scristianizzazione». Sorprendente, ad esempio, il ricorso alla “dialettica dell’Illuminismo” elaborata dalla scuola di Francoforte nell’enciclica Spe salvi (2007). Un testo che potrebbe nutrire il cammino dei pellegrini della speranza nel giubileo ormai imminente.

Di qui il ricorso all’«essenza non nichilistica del nichilismo» e l’imprescindibile necessità di «ritrovare Dio a partire dalla Sua perdita. Compito immane, eroico, che fa tremare le tempie ai filosofi e ai teologi; figurarsi a chi guida la Chiesa e deve tradurre nel tempo e nel mondo questa straordinaria rivoluzione-tradizione». L’impresa, secondo Veneziani, avrebbe schiacciato il papa, dotato di «un pensiero troppo forte per spalle troppo deboli; alla fine prevalsero, al contrario, i poteri forti muniti di pensiero debole». Ma siamo così sicuri che l’esito sia stato frutto di debolezza o non piuttosto del coraggio della radicalità propria dell’Evangelo? E ancora: a mio modesto avviso, il caso Ratzinger mostra come invece sia reale e concreta, non utopica, la possibilità della trasmissione culturale, teologica e filosofica, del sapere, essendo egli stato un maestro per molti, che sono ancora tra noi e lavorano ispirandosi alle sue idee e convinzioni, dando vita, fra l’altro al “premio Ratzinger” e alle attività della fondazione a lui intitolata.

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Quanto detto non intende affatto sminuire l’urgenza e la drammatica situazione che Veneziani denuncia, piuttosto stimolare a perseguire, anche in ambito accademico, un’autentica trasmissione del sapere, che ha bisogno certo di spazio per l’invocazione e la strada, ma anche della dedizione faticosa e ardua alla biblioteca e alla ricerca di archivio. Nessuno potrà restare indifferente dopo la lettura di questa fatica letteraria per la quale siamo grati al suo autore.





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