CRISI IN GERMANIA
Lunedì il Bundestag ha tolto la fiducia al governo della Repubblica Federale. Per molti versi, nessuna sorpresa. Il voto ha formalizzato l’implosione dell’Ampelkoalition, la “coalizione semaforo”, avvenuta la sera del 6 novembre dopo uno scontro tra socialdemocratici e liberali sul freno all’indebitamento. Era successo soltanto altre tre volte in tutta la storia della Germania moderna, a Willy Brandt, Helmut Kohl e Gerhard Schröder.
È l’ultimo atto della Germania di Angela Merkel, di cui l’esecutivo guidato da Scholz rappresentava un’appendice coerente nonostante le differenze partitiche, sia perché germogliato esattamente tre mesi prima dell’invasione russa dell’Ucraina sia per la mancanza di carisma e incisività del cancelliere.
Le elezioni parlamentari si terranno il 24 febbraio. E chiunque riuscirà a spuntarla – seguendo quanto offrono i sondaggi saranno i cristiano-democratici di Friedrich Merz – si troverà a guidare una Germania in crisi profonda.
A poco più di tre anni di distanza dall’ultima campagna elettorale, il mondo è cambiato. Le garanzie di sicurezza statunitensi, specialmente dopo la recente rielezione di Donald Trump, lasciano molti dubbi. Il legame energetico con la Russia è stato reciso. I rapporti commerciali con la Cina arrancano. E l’Europa è un continente più caotico.
Ancora più importante, sono cambiati i tedeschi. L’economia vacilla. E le prossime elezioni potrebbero confermare la definitiva ascesa sul palcoscenico federale dei principali partiti estremisti, soprattutto dell’AfD e del BSW. Sarà sicuramente una Germania diversa. Più difficile da governare.
Per approfondire: Il boomerang austero
US SHUTDOWN
Il governo degli Stati Uniti rischia di chiudere. Se i rappresentanti democratici e repubblicani alla Camera non trovano un accordo entro la mezzanotte di oggi, venerdì 20 dicembre, i finanziamenti a gran parte delle attività federali saranno bloccati. Più di due milioni di dipendenti governativi rischiano di non ricevere il proprio stipendio per Natale. Lavoratori considerati essenziali, dai militari al personale aeroportuale, continuerebbero a lavorare non pagati, mentre servizi non essenziali, come parchi nazionali e musei verrebbero direttamente chiusi. Il cosiddetto shutdown doveva essere evitato da una proposta di legge bipartisan che sarebbe stata votata il 19 dicembre alla Camera per passare poi al Senato, finché Elon Musk non ha iniziato ante tempus a esercitare i suoi compiti di “Doge”, ovvero di segretario del futuro dipartimento dell’Efficienza governativa affidatogli dal presidente eletto. Con una raffica di quasi cento tweet su X, in poche ore l’uomo più ricco del mondo ha mandato a monte la proposta, portando avanti una propria campagna di disinformazione lampo riguardo contenuti non presenti nell’accordo: dall’aumento del 40% degli stipendi dei deputati (in realtà di appena il 3,8%), ai fondi per laboratori di armi biochimiche (strutture che invece si occupano di ricerca e malattie infettive). Il documento di oltre 1.500 pagine che tra le altre cose contiene più di 100 miliardi di dollari di fondi per i disastri naturali, 10 miliardi di aiuti agricoli e riforme sanitarie. Infine, Musk ha minacciato: “Qualunque membro del Congresso che appoggi questa proposta merita di essere estromesso alle prossime elezioni fra due anni”. I repubblicani hanno abbandonato velocemente la proposta di legge, che non è neanche arrivata al voto. Lo speaker della Camera – il repubblicano Mike Johnson – si è trovato isolato, con la sua guida messa in discussione da frange del suo stesso partito che già propongono Musk come suo possibile successore, possibilità non lontana dato che le elezioni per la carica sono a gennaio. Donald Trump si è affrettato a contribuire ad affossare la proposta chiedendo di aumentare il tetto massimo del debito per le spese governative e di togliere quelle che il proprietario di Tesla ha definito pork, ovvero spese “non necessarie o legate a interessi lobbistici dei democratici”. Tradotto, ottenere più spazio di manovra e mano libera per il futuro, alcuni dem già temono tagli fiscali agli ultraricchi, senza doversi sporcare le mani una volta alla Casa Bianca. Non dovesse passare la legge non servirà altro che far ricadere le responsabilità dello shutdown sull’ultimo che non molla e non accetta il compromesso, cioè i democratici. I quali, insieme ad alcuni repubblicani più conservatori, hanno rifiutato l’ultima proposta presentata dallo speaker, che sulla linea dettata dal tycoon aggiungeva la sospensione del tetto del debito fino al 2027. La vicenda evidenzia le faglie interne al partito repubblicano: tra chi, pur sostenendo Trump, non accetta spese eccessive o manovre azzardate sul debito e chi segue l’influenza di figure esterne come Musk. Intanto il destino del bilancio si gioca in poche ore con un occhio al 20 gennaio, quando The Donald entrerà alla Casa Bianca.
Per approfondire: Le troppe Americhe dei democratici
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TURCHIA – CORNO D’AFRICA
di Lorenzo Noto
Mercoledì 11 dicembre Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato il raggiungimento di un accordo tra Etiopia e Somalia per la risoluzione delle tensioni tra i due paesi scoppiate a seguito del memorandum d’intesa tra Addis Abeba e il Somaliland firmato lo scorso gennaio. Questo prevedeva l’accesso per l’Etiopia allo strategico porto di Berbera, affaccio concorrente a Gibuti sul Golfo di Aden, oltre che la concessione di una zona franca di dieci chilometri con annessa costruzione di una base militare per la Marina etiope (in fase di ristrutturazione dopo esser stata smantellata nel 1996). In cambio Addis Abeba avrebbe riconosciuto l’indipendenza del Somaliland (proclamata nel 1991). Punto controverso su cui il governo etiope è sempre rimasto vago ma che aveva comunque sprofondato le relazioni con la Somalia ai minimi dopo la storica pace del 2018, rischiando l’escalation militare. Accuse e minacce si sono susseguite per mesi, fino all’inizio di dicembre quando il governo della Somalia ha accusato l’Etiopia di fornire armi e truppe nell’Oltregiuba, altra regione somala dichiaratasi autonoma nel 1998 e in rotta con il governo federale di Mogadiscio.
Soprattutto e peggio, lo sviluppo delle tensioni ha rischiato di innescare l’ennesima rotta di collisione tra Egitto ed Etiopia, asse su cui posa l’intera stabilità del Corno d’Africa. Al di là della decennale contesa sulle risorse nilotiche (la diga Gerd), la competizione tra i due pesi massimi africano-orientali ruota proprio attorno all’annosa questione della concessione all’Etiopia dell’accesso al mare. Assente dall’indipendenza dell’Eritrea nel 1993, il ritorno di Addis Abeba sul mare fungerebbe nei timori egiziani da moltiplicatore di potenza dell’ex impero abissino, esaltandone il ruolo nel Grande gioco marittimo del Mar Rosso. Principio di una profonda ristrutturazione dell’ordine geopolitico regionale, a scapito della già languente influenza del Cairo.
Dopo due round infruttuosi di colloqui somalo-etiopi, ad agosto il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud aveva siglato un accordo di cooperazione con l’Egitto per l’invio di diecimila militari egiziani in Somalia. Il caso del porto di Berbera ha dunque rischiato di scatenare un terremoto che si sarebbe infranto sul precario equilibrio intorno allo Stretto di Bāb al-Mandab, area già martoriata tra attacchi ḥūṯī, guerra civile yemenita e pirateria somala.
Con l’intesa dell’11 dicembre la Turchia ha dunque sferrato un colpo da biliardo…
Continua a leggere: La Turchia spegne le tensioni in Corno d’Africa, per ora
GIUBA
Mentre i governi di Somalia ed Etiopia si incontravano ad Ankara per discutere delle tensioni sul Golfo di Aden, Mogadiscio ha dovuto affrontare nuove fratture interne, questa volta sfociate in scontri armati. Le relazioni tra il governo federale di Mogadiscio e quello regionale del Giuba hanno raggiunto un nuovo minimo. Le tensioni, iniziate con le elezioni regionali nello Stato federato dell’Oltregiuba, sono culminate nella contestata rielezione del governatore Mohamed Islam “Madobe”, figura dominante della regione e apertamente osteggiata dal governo federale. La crisi è ulteriormente degenerata con l’emissione di mandati di arresto reciproci: da un lato il governo federale ha diramato un mandato contro Madobe, dall’altro il governo del Giuba ha risposto con un mandato contro il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamoud. L’incapacità di trovare una soluzione politica ha riportato il confronto armato al centro della gestione delle tensioni tra il potere centrale e le autorità regionali.Nelle ultime settimane, Mogadiscio ha inviato centinaia di soldati nell’area di Kamboni, vicino al confine meridionale del paese. È proprio in questa zona che si sono verificati scontri a fuoco tra le Forze armate federali e quelle regionali, con entrambe le parti che si accusano reciprocamente di aver scatenato le ostilità. Secondo fonti locali, gli scontri avrebbero causato circa 600 vittime, con le truppe federali che avrebbero subito pesanti perdite. Diversi soldati del governo centrale si sarebbero ritirati oltre il confine con il Kenya, consegnandosi alle Forze armate di Nairobi. La battaglia di Ras Kamboni riporta al centro dell’attenzione le profonde fragilità del processo di State building in Somalia. Nonostante il presidente Hassan Sheikh Mohamoud abbia beneficiato di un consistente sostegno diplomatico e mediatico da parte di Unione Europea e Stati Uniti, questo non si è dimostrato sufficiente per sanare le divisioni interne al paese. Le crescenti tensioni con il Giuba rischiano ora di compromettere ulteriormente l’offensiva contro Al-Shabaab nel sud della Somalia, trasformandola in una logorante guerra di attrito. .
Per approfondire: A chi conviene la Somalia divisa
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