La superficialità di cui scrive Marco Gatto nel suo ultimo saggio, L’egemonia della superficie. Per una critica del postmoderno avanzato (Castelvecchi, pp. 234, euro 22), non è certo quella elogiata da Leonardo Sciascia, che superficiale non fu affatto, quando affermava che a forza di andare in profondità, non si vede più niente. Per comprendere plasticamente di che si tratta potrebbe essere utile vedere The substance, il film di Coralie Fargeat. La rigenerazione cellulare della protagonista, per rincorrere una felicità legata unicamente all’apparire, allude alla pervasività del capitalismo avanzato, che si autoassolve trasformando ciascuno di noi in carnefice di sé stesso.
LA PROFONDITÀ del saggio di Gatto è, dunque, disvelatrice. Riusciamo a comprendere l’arcano di questa alienazione per sdoppiamento. Ecco per quale motivo, a parere dell’autore, il nesso «superficie/profondità» è assai produttivo, se letto con finezza dialettica. Il dominio dell’astrazione capitalistica, fondato sullo svuotamento del concreto e sulla seduzione epidermica delle apparenze e delle forme simboliche, ha innescato un processo di esteriorizzazione che, invece di aprire (come promette di fare), chiude e stritola la realtà sociale in una bolla effimera di senso.
Contro la liquidità del pensiero debole, Marco Gatto osa invitarci ad essere pesanti. Smaltita la sbornia del post-moderno, ci soccorre con le categorie del moderno. Smarriti nell’afasia della frammentazione, non ha timore di riaffermare la chiarezza della totalità. La lettura del suo saggio ha l’efficacia di un riposizionamento. Siamo stati portati col naso contro la parete. Incapaci di cogliere l’insieme del quadro, siamo stati fuorviati. Il saggio ci indica la giusta distanza. La pesantezza non è pedanteria, il moderno non è modernariato, la totalità non è totalitarismo, e la profondità non è insondabilità. Questo lavoro, insomma, fornisce un contributo importante alla crisi di indifferenziazione che stiamo vivendo.
Gli arnesi utilizzati sono vecchi ma ancora utilissimi, le idee più generative del pensiero marxiano, filtrato dalla riflessione critica di Adorno, in particolare il rapporto tra strutture e sovrastrutture che il blocco storico dominante, oscillante tra un’accelerata ipermodernità e un’estenuata post-modernità, ha mimetizzato.
QUESTA DIALETTICA non è affatto scomparsa, come ci hanno voluto far credere, solo che le strutture economiche hanno tenuto molto lungo il guinzaglio, al punto da illudere le sovrastrutture simboliche della loro autonomia.
Anche blocco storico, egemonia e dominio sono categorie della modernità dialettica. Concetti gramsciani che, grazie all’analisi di Gatto, smascherano la «capacità mimetica» della coazione capitalista alla «libertà espressive ed artistiche», con l’obiettivo di affermare una signoria sul «dentro» presidiando autoritariamente il «fuori» del sistema. Accettare sé stessi può rivelarsi una forma di resistenza. Il pensiero generativo di Gramsci ci induce verso una «soggettività pensante« in grado di elaborare una «propria e indipendente concezione del mondo» e conseguentemente pronta «attivamente alla produzione della storia del mondo». Ciascuno di noi, persone concrete, assumiamo la profondità di persone storiche, in grado di «essere guida di noi stessi».
IL LIBRO propone anche un nuovo, possibile meridionalismo a trazione universalistica. Guarda caso proprio un poeta, Rocco Scotellaro, a cui Gatto ha già dedicato attenzione, è tra i primi nel dopoguerra a sentire il dramma dei cambiamenti in atto e la necessità della «fuoriuscita da un imposto stato di natura». Anche grazie ai suoi strumenti letterari, egli non cade nell’inganno della rappresentazione. Non ci sono contadini da «rappresentare». Il compito dell’intellettuale è quello di «allestire un spazio d’azione» in cui si riafferma la centralità della realtà. Si trattava di sostenere i contadini nella conquista di una propria autonomia. Furono un rovesciamento dialettico e un’azione di mediazione che un pugliese importante, Vittore Fiore, colse come profondamente gramsciano.
La rilettura di questa esperienza storica e letteraria è uno dei frutti più maturi dell’analisi di Marco Gatto. Scrive Roberto Finelli nella postfazione, «forse solo un giovane studioso proveniente dal Mezzogiorno d’Italia (…) con la testa in un marxismo internazionale (…), poteva giungere a una formulazione filosofico-sociologico-politica così radicale, innovativa e rigorosa». Permette infatti di orientarci dentro questa nostra morente liquidità, ancorando la letteratura a «storie e narrazione concrete», ridefinendo la politica come «costruzione», non più come «presupposizione», di soggettività.
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