La repressione transnazionale dei regimi autoritari per silenziare i media in esilio

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La scorsa settimana sono state arrestate in Romania due persone sospettate di aver accoltellato Pouria Zeraati, giornalista di Iran International, lo scorso 29 marzo a Londra. Il reporter era stato attaccato fuori di casa, mentre si recava al lavoro, nel quartiere londinese di Wimbledon. Assieme a Radio Zamaneh e IranWire, Iran International, è uno dei più autorevoli media in esilio iraniani, nonostante alcune accuse (smentite dal network) di aver ricevuto fondi dall’Arabia Saudita, l’arci-nemico sunnita dell’Iran sciita.

 Nel 2023 la dirigenza aveva deciso di chiudere la sede di Londra e utilizzare solo quella a Washington, negli Stati Uniti, per il timore che i propri giornalisti venissero attaccati da agenti iraniani o loro collaboratori, come poi effettivamente accaduto. Le autorità iraniane avevano infatti espresso chiaramente l’ostilità del regime a Iran International, lasciando intendere che i suoi dipendenti sarebbero stati bersaglio di azioni punitive. 

Il ruolo fondamentale svolto da media in esilio come Iran International nel sistema mediatico globale viene riconosciuto molto di rado. Eppure, a fronte del generale velo di censura e autocensura che esiste nei paesi di cui trattano, sono spesso queste redazioni a scovare le notizie più importanti, verificare le informazioni e contrastare così la propaganda di regime. 

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Esistono oltre cento media in esilio nel mondo, originari di più di venti paesi dove la libertà di stampa subisce gradi diversi di pressione. A volte questi media riescono anche a dar rilevanza internazionale a storie che altrimenti rimarrebbero storie locali, storie come tante, censurate dal regime e conosciute soltanto dai pochi che hanno avuto un coinvolgimento diretto nella vicenda.

Uno degli esempi più noti riguarda la storia di Mahsa Amini, la ragazza curdo-iraniana che nel settembre del 2022 fu picchiata a morte dalla polizia morale iraniana dopo esser stata arrestata per non aver portato correttamente il velo islamico. La notizia del suo omicidio fece deflagrare le più partecipate proposte iraniane nell’ultimo decennio, contro cui il regime di Teheran adottò misure particolarmente brutali. Se la vicenda di Mahsa Amini è abbastanza nota, perlomeno in Occidente, meno nota è la storia di come la notizia del suo omicidio riuscì a uscire dai confini del paese e a diffondersi in tutto il mondo.

Un giorno di settembre del 2022 Ajda Qajar, una giornalista di IranWire, media iraniano in esilio a Londra, lesse per caso un tweet in farsi che parlava di una ragazza in coma a causa di un pestaggio particolarmente violento da parte delle autorità iraniane. La notizia era stata raccolta da due giornaliste, Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi, che si erano recate di persona nell’ospedale dove era ricoverata Amini – verranno poi condannate a più di dieci anni di prigione per aver fatto il proprio lavoro di croniste e poi rilasciate su cauzione. Qajar verificò le informazioni raccolte dalle colleghe in loco, riuscendo anche a mettersi in contatto con il fratello di Mahsa Amini, che confermò la veridicità di quanto accaduto a sua sorella, nel frattempo morta.

Triangolando fonti diverse, la giornalista scrisse di getto un pezzo per la versione in farsi di IranWire, che il giorno seguente venne tradotto in inglese. Alcuni media internazionali ripresero la storia e la fecero conoscere anche a pubblici che solitamente non si interessano di cose iraniane. Il resto della storia è noto.

Al momento in Unione Europea ci sono almeno una ventina di media in esilio, a cui vanno aggiunte centinaia di giornalisti freelance che non sono affiliati a nessuna redazione specifica. Il loro numero si è impennato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, coincisa con una nuova ondata di repressione contro la stampa non allineata da parte del Cremlino. Proprio la rilevanza che i media in esilio hanno nel formare l’immagine esterna dei regimi variamente autoritari di cui scrivono li rende invisi al potere in patria. Questi allora tendono a investire molte energie nello sforzo di sradicare questi bastioni di dissenso. L’attacco a Zeraati rappresenta infatti un caso esemplare di una pratica a cui le moderne autocrazie ricorrono di frequente, con tecniche anche molto sofisticate: «la repressione transnazionale».

Un recente progetto di Freedom House dedicato al fenomeno ha osservato: «Quelli che sembrano essere incidenti isolati se considerati separatamente – un assassinio qui, un rapimento là – in realtà costituiscono una minaccia costante in tutto il mondo che sta influenzando la vita di milioni di persone e cambiando il modo in cui attivisti, giornalisti e persone normali conducono le loro vite. La repressione transnazionale non è più uno strumento eccezionale, ma una pratica normale e istituzionalizzata per decine di Paesi che cercano di controllare i propri cittadini all’estero».

La repubblica islamica iraniana sembra eccellere in questo tipo di pratiche, come hanno dimostrato molti studi di Marcus Michaelsen, ricercatore all’Università di Toronto, che ha analizzato nel dettaglio le tecniche che Teheran applica per silenziare i suoi cittadini che hanno riparato all’estero per sfuggire alle limitazioni delle libertà individuali e collettive imposte dal regime sciita. 

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