MAJDAL SHAMS – Sui muri, sulle vetrine dei negozi, sulle automobili, ci sono ancora le fotografie dei 12 “piccoli martiri”, come li chiamano in questa cittadina alle pendici del Monte Hermon, Majdal Shams, roccaforte drusa sulle alture del Golan occupate da Israele, considerata la “capitale” informale della regione. Qui, il 27 luglio scorso, un missile lanciato dal Libano ha centrato in pieno il campetto da calcio, uccidendo 12 tra bambini e ragazzi che stavano giocando. Pare accertato che il missile sia stato lanciato da Hezbollah, anche se il vero obiettivo non sarebbe stato il campo di calcio o la comunità drusa, bensì una postazione militare israeliana poco distante. Proseguendo oltre la cittadina, inerpicandosi lungo la strada 98, si arriva in un quarto d’ora all’avamposto dell’Idf sul Monte Hermon, che, dall’alto dei suoi 2.814 metri, costituisce un punto d’osservazione privilegiato per controllare i movimenti del nemico. Un luogo di assoluta importanza strategica per Israele che pochi giorni fa, dopo il collasso del regime in Siria, ha detto chiaramente di essere deciso a tenerlo “per l’eternità”. Da lì, la Siria e il Libano sono letteralmente “a vista d’occhio”. Negli ultimi trentacinque anni sui verdi pendii delle alture sono stati costruiti dagli israeliani più di 150 insediamenti agricoli sui quali dall’aprile 1974 vigilano attenti i radar del monte Hermon. Il 14 dicembre del 1981 il parlamento israeliano approvò la legge che, sostituendo l’autorità militare in vigore nell’area dal 1967, sancì l’annessione allo Stato d’Israele delle alture del Golan, cui fu esteso il diritto, la giurisdizione e l’amministrazione civile dello Stato. Due giorni fa l’esercito di Tel Aviv ha preso il controllo della base militare sul versante siriano del Monte Hermon. L’emittente Channel 12 ha affermato che l’Idf si è spinto fino a 14 chilometri di profondità dentro il territorio siriano.
Ma c’è un’altra notizia passata nel sostanziale silenzio dei media locali e internazionali: la rete libanese Al-Mayadeen ha riferito che le forze dell’Idf sono riuscite a prendere il controllo del letto del fiume Yarmouk e della diga di Al-Wahda nella Siria meridionale, proprio al di là del Monte Hermon. Un segnale chiarissimo che, oltre a quello di Gaza e a quello del Libano, c’è un altro fronte che interessa moltissimo Israele. È il fronte di una guerra che si potrebbe definire “secondaria” o anche ibrida: è la guerra dell’acqua. Il controllo del Golan, infatti, assegna a Israele il reale controllo del Giordano, consentendo allo Stato ebraico di utilizzare l’acqua come vera arma di negoziazione.
La diga di Al-Wahda (conosciuta anche come diga di Al-Muqaran) è una diga congiunta tra Siria e Giordania, inaugurata nel 2004 dal re Abdullah II e dal presidente siriano Bashar al-Assad. La struttura, lunga 110 metri e con una capacità di stoccaggio di 115 milioni di metri cubi, è destinata a fornire acqua potabile e per l’agricoltura alla Giordania e, in cambio, a fornire elettricità idroelettrica alla Siria. Assumere il controllo della diga dà a Israele il controllo di una delle principali fonti d’acqua nell’area di confine tra Siria, Israele e Giordania. Ieri le forze israeliane, tra cui due bulldozer e quattro veicoli blindati per il trasporto delle truppe, sono entrate nella zona di al-Maqriz, vicino al villaggio di Saida, nella zona del confine amministrativo tra le province di Daraa e Quneitra, ed hanno piantato più di una “bandierina” tutt’altro che simbolica, nella zona. Il ruolo dell’acqua nel conflitto israelo-palestinese è un fatto di portata fondamentale, anche se mai sufficientemente evidenziato e se c’è una regione dove quella per l’acqua rappresenta una battaglia già da oltre settant’anni, quella zona è proprio il bacino idrico del Giordano, conteso tra Palestina e Israele fin dalla nascita dello Stato ebraico nel 1948.
Si fa risalire l’origine dello scontro per l’acqua agli ultimi decenni del XIX secolo, quando il movimento sionista sancì l’importanza strategica dell’acqua per lo sviluppo del futuro Stato ebraico. Israele ha dovuto infatti fare i conti con la scarsità d’acqua che da una parte metteva a repentaglio lo sviluppo del paese stesso e dall’altra la sua stessa sopravvivenza. Lo stesso fondatore d’Israele David Ben Gurion affermò: “Stiamo portando avanti una guerra dell’acqua con gli arabi. Il futuro dello Stato ebraico dipende dal risultato di questa battaglia”. I conflitti veri e propri iniziarono nel 1948 quando il neonato Stato d’Israele inaugurò un piano per la costruzione di un immenso canale, noto come National Water Project, con lo scopo di deviare il corso del fiume Giordano per rifornire d’acqua la zona arida del deserto del Negev. Il progetto, che mirava anche a rafforzare la presenza israeliana in quella zona, suscitò l’ostilità dei limitrofi paesi arabi. Nonostante l’intervento americano per mediare un compromesso, non si giunse mai a un accordo tra i diversi paesi per la spartizione delle risorse idriche della regione. I diversi attori regionali proseguirono così in proprio i progetti idrici e nel 1964 Israele terminò la costruzione dell’imponente acquedotto nazionale, il National Water Carrier. Questo acquedotto preoccupò i governi arabi, che decisero di dare il via a progetti analoghi. La situazione si fece sempre più tesa: così, quando nel 1967 la Siria, su spinta del presidente egiziano Nasser, decise di procedere con un intervento per dirottare le acque dei due fiumi Hasbani e Banias, riducendo la portata del Giordano (e sottraendo quindi acqua a Israele), Israele reagì colpendo con raid aerei le installazioni nei pressi dell’area di deviazione del fiume. Fu però la guerra dei Sei Giorni a mutare i rapporti nella distribuzione idrica della zona. Da questo conflitto infatti, Israele ottenne il controllo delle alture del Golan e della Cisgiordania e, con esse, di tutte le risorse idriche della Palestina. Da allora la situazione non è di molto mutata. Israele dispone tutt’oggi del controllo del Giordano. Nel tempo, la percentuale di terreni agricoli che i contadini palestinesi riescono a irrigare è diminuita dal 25% del 1967 a circa il 5% attuale.
Un recente rapporto di Oxfam, intitolato Water War Crimes, ha evidenziato come Israele utilizzi l’acqua come una vera e proprio arma. La deliberata riduzione dell’accesso all’acqua a Gaza da parte di Israele ha ridotto i civili a poterne usufruire per meno di un terzo del minimo raccomandato, denuncia il rapporto. Il taglio dell’approvvigionamento idrico esterno, la distruzione sistematica delle strutture idriche e l’ostruzione deliberata degli aiuti da parte di Israele hanno ridotto la quantità di acqua disponibile a Gaza del 94%, a 4,74 litri al giorno a persona, afferma ancora Oxfam, che ricorda anche che il 97% dell’acqua di Gaza era già considerata imbevibile prima dell’inizio della guerra del 7 ottobre, il che significa che gran parte dell’acqua a cui le persone hanno accesso non è trattata e sta causando una serie di problemi di salute, tra cui una varietà di malattie. Di certo, alla luce delle ultime azioni dell’esercito, almeno nell’area contesa del Golan Israele sta vincendo la guerra dell’acqua. Se, come sembra, il prossimo obiettivo sarà la Valle di Bardah, il governo di Benjamin Netanyahu assumerà il completo controllo di tutte e sedici le principali fonti d’acqua della Siria meridionale, il che farà perdere la libera disponibilità idrica a metà della popolazione siriana.
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