Giacomo Cusmano e i poveri

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«Il grido del povero sale fino a Dio, ma non arriva alle orecchie dell’uomo», scriveva già nell’Ottocento il teologo francese Felicité-Robert de Lamennais. Una verità ancor più attuale ai giorni nostri.

E forse proprio per questo, nell’indire il 31° Giubileo che si aprirà a Roma il 24 dicembre, papa Francesco ha scelto di porre al centro di esso la speranza, sottolineando come sperare sia «attendere qualcosa che ci è già stato donato: la salvezza nell’amore eterno e infinito di Dio. Quell’amore, quella salvezza che danno sapore al nostro vivere e che costituiscono il cardine su cui il mondo rimane in piedi, nonostante tutte le malvagità e le nefandezze causate dai nostri peccati di uomini e di donne».

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Temi e parole che, nel clima di terza guerra mondiale a pezzi ormai da anni evidenziato da papa Bergoglio, rimandano con la mente alla Populorum progressio: al tempo, non tutti compresero il grido di dolore dei poveri che Paolo VI aveva fatto suo, al punto che il 27 marzo 1968, nel primo anniversario dell’enciclica, il pontefice affermava: «È la religione che offre fondamento di giustizia alle rivendicazioni dei non abbienti, quando ricorda che tutti gli uomini sono figli d’uno stesso Padre […]. Potevamo noi tacere, se così stanno le cose? Non potevamo. E perciò abbiamo parlato».

E non tace la Chiesa, fortunatamente, in un’epoca – quale quella contemporanea – di volta in volta definita liquida, postmoderna, ipertecnologica e digitale. Categorie che esplodono di fronte alla vita e agli insegnamenti di tanti profeti.

Giacomo Cusmano, ad esempio: chi ne rilegga gli scritti – soprattutto l’epistolario e le riflessioni omiletiche – potrà ritrovare in essi la traccia di quanto, a livello ecclesiale generale, sta oggi avvenendo sia sul piano della teologia dei poveri che su quello dell’elaborazione di una dottrina sociale e di una dottrina spirituale cristiana in grado non soltanto di analizzare i fermenti sociali della modernità avanzata, ma anche di rileggere religiosamente le ingiustizie sociali che colpiscono popoli e nazioni, in un contesto che papa Francesco ha tratteggiato come cambiamento d’epoca, in cui la Chiesa è chiamata a essere comunione dei poveri e per i poveri, da ricostruire alla luce del santo di Assisi, l’uomo della povertà estrema, il ricco che incontrò Cristo e gli disse di sì, diventando il poverello che si vantava di aver sposato Madonna Povertà.

E come procedere a tale ricostruzione, se non sulle orme di tanti uomini e donne che hanno preso sul serio il precetto della povertà e della carità smisurata? In quest’ottica, non ha, forse, proprio il beato Cusmano, uno speciale titolo di merito nell’aver pre-sentito tale sottolineatura all’interno del deposito della Rivelazione cristiana? Cos’altro è, infatti, il suo carisma, se non quello di fare della Chiesa la madre dei poveri, realizzando, particolarmente nei ministri ordinati e nelle persone di vita consacrata della sua congregazione, l’imitazione vivente della forza dello Spirito Santo, inteso quale Pater pauperum?

Se ci fermiamo a riflettere sull’apostolato del Cusmano, appare chiara la concezione della sacramentalità della povertà e del povero.

Furono la terribile situazione sociale, l’estrema miseria, aggravate dall’epidemia di colera nella seconda metà dell’Ottocento, durante la quale a Palermo le persone morivano di fame, a dargli l’intuizione del “Boccone del Povero”: rinunciare a una piccola parte del proprio cibo (a un boccone), per darlo ai poveri, nella stessa mensa familiare come accoglienza e condivisione, recuperando in tutta la sua purezza l’ispirazione della prima comunità cristiana.

Ecco perché la carità autentica – osservava il Cusmano – non può essere semplice assistenzialismo, o elemosina: al contrario, essa deve nascere dall’eucaristia e tradursi in comunione dei cuori, che diventa anche comunione dei beni.

Questa azione – che è opera della Grazia – non salva solo i poveri, ma santifica le anime più elette con l’umile esercizio di carità verso Gesù povero. Nel povero vi è Cristo. Nell’eucaristia e nel povero è, dunque, lo stesso Gesù che deve essere adorato e servito. Ne deriva una doctrina paupertatis, che potrebbe oggi essere dalla Chiesa considerata, anche dal punto di vista dottrinale, santa, in quanto perfettamente coerente con il depositum fidei.

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Perché, dunque, non avviare un discernimento ecclesiale circa l’esistenza di un particolare carisma di sapienza, svolto da Giacomo Cusmano per il bene della Chiesa siciliana e universale del suo tempo e di ogni tempo? La sua dottrina non è forse eminente e attuale in quanto possiede un messaggio sicuro e durevole, capace di contribuire a confermare e approfondire il deposito della fede, illuminando anche nuove prospettive di dottrina e di vita?

Al tempo il compito di approntare risposte che, nella quotidianità, hanno già forma e consistenza: Giacomo Cusmano vive.

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