Andrea Romano, ex deputato prima di Scelta Civica e poi del Pd renziano, è professore di Storia Contemporanea e Storia della Russia all’università di Tor Vergata a Roma. Con BeeMagazine analizza i movimenti al centro del “campo largo”, accentuati dalle dimissioni di Ernesto Maria Ruffini dal vertice dell’amministrazione fiscale: “Vedo un problema di agenda politica, quella dell’attuale Pd è a vocazione minoritaria: parla al cosiddetto ‘popolo di sinistra’, ammesso che esista ancora, coltiva gli orticelli classici e i territori tradizionali, gioca nella sua metà campo. Non si rivolge alla parte del Paese che chiede meno tasse, più sicurezza nelle città, mobilità sociale e crescita economica. Tutti temi su cui Giorgia Meloni pascola serenamente”.
All’orizzonte Romano vede non un “Papa straniero” per i Dem, ma una Margherita: “Ruffini è una figura preziosa per serietà e umiltà, bisogna evitare populismi al centro”.
Dopo le indiscrezioni su una sua ipotetica discesa in politica, Ruffini si è dimesso da direttore dell’Agenzia delle Entrate, con una lettera al ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti e con un’intervista al Corriere della Sera in cui denuncia un cambio di clima e rivendica il diritto all’impegno civile. Lei come legge questa decisione?
Ci vedo una doppia risposta da parte di Ruffini, che conosco e stimo. Da un lato, alla discussione politica sul fantasma del centro, rispetto alla quale considera legittimamente le dimissioni un passo che gli restituisce la libertà di intervenire. Dall’altro lato però è una risposta alla retorica della destra che considera l’imposizione fiscale come qualcosa di ingiusto. Il riferimento di Ruffini sullo stupore nel vedere “pubblici funzionari essere additati come estorsori di un pizzo di Stato” è fatto a ragion veduta.
L’espressione “pizzo di Stato” è stata usata da Giorgia Meloni parlando delle tasse ai commercianti. Il nuovo clima si riferisce all’atteggiamento “dialogante” del governo sull’evasione fiscale?
Le parole usate da Ruffini rappresentano il simbolo della sua visione: il cittadino che rispetta gli obblighi verso la sua comunità deve essere riconosciuto positivamente e non considerato meno furbo dell’evasore se non addirittura fesso. È un messaggio civico: le tasse non sono belle ma necessarie per la collettività. Ed è coerente con il bellissimo libro di Ruffini Uguali per Costituzione. Dove c’è un richiamo allo spirito della Carta non in senso resistenziale, come troppo spesso viene fatto anche a sinistra, ma alle motivazioni del patto costituente tra comunisti, cattolici, azionisti. È un tema su cui, da storico, spendo molte lezioni.
Ruffini rivendica i risultati della lotta all’evasione di cui, dice, non ci si deve vergognare. Secondo lei il passo indietro è anche frutto di un dissenso sulla concreta azione governativa tra rottamazioni e concordato fiscale?
Non c’è dubbio. Quando dice che il livello della pressione fiscale lo decide il legislatore e non l’Agenzia delle Entrate, esprime un concetto semplice: il governo democraticamente eletto ha tutto il diritto di governare, ma spesso cede a una retorica barricadera e irresponsabile. Il messaggio è politico: la maggioranza non faccia propaganda contro le tasse bensì si impegni di più ad abbassarle, visto che rispetto alle promesse elettorali non ha fatto abbastanza.
Va detto però che il centrodestra ha una ricetta chiara sul fisco, che poi si può condividere o meno. Qual è quella del centrosinistra?
È vero, il centrosinistra deve incalzare di più. Oltre all’equità fiscale, anche la pressione fiscale da abbassare è un tema di sinistra: da cittadino dico che non si può regalare questa bandiera alla destra.
Torniamo all’altro versante delle dimissioni di Ruffini: la ricerca di un federatore a sinistra. Non sarebbe la prima volta che il Pd invoca un “Papa straniero”. Lei, che è stato renziano, vede una sofferenza dell’ala riformista con la segreteria di Elly Schlein?
Vedo un problema di agenda politica prima che di formule. Quella dell’attuale Pd mi sembra un’agenda a vocazione minoritaria: asseconda la rappresentazione di un partito che parla al cosiddetto “popolo di sinistra”, ammesso che esista ancora, che coltiva gli orticelli classici e i territori tradizionali, che insomma gioca prevalentemente nella sua metà campo. Non si rivolge alla parte del Paese – non so se chiamarla moderata o di centro – che chiede meno tasse, più sicurezza nelle città, mobilità sociale e crescita economica. Tutti temi su cui Giorgia Meloni sta serenamente pascolando.
Elly Schein però è cresciuta nei consensi e ha polarizzato la sfida con la premier in vista delle prossime elezioni. In prospettiva lei vede, un nuovo Prodi – federatore della coalizione – o piuttosto un nuovo Rutelli – leader di un’area centrista?
Intanto spero che Ruffini si impegni in politica: c’è bisogno dei temi che solleva e della sua serietà di metodo, figure come la sua sono preziose per il centrosinistra. Detto questo, mentre il centrodestra è stato abituato da Berlusconi a stare insieme, a sinistra ricorre ciclicamente la tentazione del Papa straniero. Ma da Prodi sono passati vent’anni e molte cose sono cambiate. Credo che nel 2027 si voterà con l’attuale conformazione, fatta di partiti che stanno insieme un po’ per forza. In questo scenario vedo probabile un soggetto che interpreti i temi a cui il Pd di Schlein mi sembra refrattario.
Insomma, una Margherita 5.0?
Lo spero. Un soggetto meno legato a caratteri come quelli di Matteo Renzi e Carlo Calenda che si sono rivelati inadeguati alla costruzione del progetto. C’è un tema di metodo e di serietà: i fallimenti devono insegnare che serve umiltà per evitare il rischio di populismi di centro.
Federica Fantozzi – Giornalista
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