Leonardo Caffo, Tony Effe, e l’analisi della fedina morale dei tronisti filosofi

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«Ma scusi, Parenzo, ma io mica faccio il tronista»: lo dice Leonardo Caffo in una delle circa trecentottanta interviste che ha fatto nell’ultima settimana, quella a “La zanzara”, programma radiofonico che non avevo mai ascoltato in vita mia e che, tra tutte le apparizioni del famoso del momento in cui sono inciampata, è l’unica volta in cui gli sono state fatte delle domande – e questo articolo potrebbe finire qui, con «dimmi te se tocca scrivere che gli unici a far domande agli intervistati sono Cruciani e Parenzo, dimmi te che declino delle élite tocca osservare».

Che poi non è vero che Caffo non faccia il tronista, per la semplice ragione che non è più vero che esistano i mestieri, i ruoli, le aspettative relative alle classi sociali e professionali: i tronisti valgono quanto gli intellettuali, i politici quanto i comici, e gli autocertificati filosofi quanto Tony Effe, che non so bene che ruolo si autocertifichi, ma so che la dizione terrificante non è la sola cosa che ha in comune con Caffo.

Tony Effe è il Leonardo Caffo di questa settimana, o meglio lo sarebbe se Caffo non avesse una determinazione albapariettiana nel trascinare il proprio quarto d’ora di celebrità ai tempi supplementari, il che mi fa molto ridere perché, con otto mesi di ritardo, ho visto un podcast che aveva registrato ad aprile.

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In cui, trascrivo, dice «io tendo a fare filosofia di tutto, dei miei brufoli, figuriamoci se non la faccio dei miei problemi giuridici e familiari ma per astrarre, non per parlare dei cazzi miei che non capisco ancora perché siano interessanti per la gente». Poi deve averlo capito, perché mi pare venga meno anche un’altra frase di aprile, quella che faceva così: «Ho deciso di non parlare né mai parlerò delle mie questioni private, a prescindere dal grado di giudizio […] nel senso che mia figlia è troppo più importante del mio benessere o giustificazione» (anacoluto come nell’originale).

Poi niente, il tempo passa, i gradi di giudizio anche, e Caffo – reso notizia da un nugolo di invasati decisi a convincere un paese che ha giustamente continuato a sbattersene che fosse importantissima la fedina morale di chi presentava libri che nessuno avrebbe letto in una fiera romana di cui nessuno che non lavorasse nell’editoria si sarebbe accorto – ha deciso che sarebbe passato dal proposito di non parlare mai, tanto lui non era turbato da questa storia, stava «a casa a leggere Spinoza», all’accorgersi che la bibliografia di Spinoza sono una decina di titoli in tutto e insomma se non voleva annoiarsi gli toccava dichiarare in continuazione.

Peraltro, ci fosse un’intervista in cui non pare un mitomane che ti aspetti venga incriminato altre trecento volte: nonostante fuori da “La zanzara” non gli facciano domande, le risposte sono sempre e comunque la fiera dell’imbarazzo.

Il podcast di aprile è, oltretutto, un’ottima dimostrazione delle mie ragioni quando dico che non solo i podcast sono una formula per analfabeti, ma che ci sono in giro molti più podcast che analfabeti disposti ad ascoltarli. Non si spiega altrimenti che ci sia on line una roba in cui il caso di cronaca del momento dice che Michela Murgia era «la persona meno femminista del mondo», o che quando dormiva a casa sua lei gli entrava in camera dicendo «mamma mia come sei bello, ti acchiapperei il pisello», o che l’Italia non può avere intellettuali interessanti perché la letteratura è rappresentata da Cathy La Torre (che mi risulta rappresenti la letteratura quanto il giardinaggio, ma non cavilliamo), e che nessuno in otto mesi abbia detto una sillaba in merito, non la famiglia queer (qualunque cosa sia) né i detrattori della stessa.

Notevolissimo anche l’intervistatore, interessato solo a consigli su come spendere meno, e che quindi interroga il suo ospite su quanto sia grave che lui debba pagare gli alimenti alla sua ex acciocché il figlio abbia sempre lo stesso tenore di vita (il che ci spiega essere diseducativo: il piccino non si accorgerà mai del divario di classe sociale tra papà e mamma), o che le donne pretendano la libertà di far le zoccole ma esigano comunque la cena pagata.

Qui Caffo ci delizia con l’informazione che lui ogni tanto prova a offrire da bere a ragazze che rifiutano (se state visualizzando la scena «Sparisci, sgorbio» di quel film di Woody Allen: statemi vicino) perché loro sono moderne e lui invece ha una formazione anni Ottanta. Essendo nato alla fine dell’88, avrà semmai una formazione anni Zero, ma non pare saperlo: a un certo punto ci racconta di quando guardava Carmelo Bene al “Costanzo show”, e la cultura in Italia era quella roba lì (mica Cathy La Torre); solo che all’epoca di quell’“Uno contro tutti” Caffo aveva cinque anni, e insomma è un po’ confuso, ma d’altra parte a dare un’intervista al giorno dopo un po’ non distingui più tra falsi ricordi e mondi che hai vissuto solo tramite YouTube.

Abbiamo fatto di Caffo una presenza fissa sui giornali, una microcelebrità, un tronista che non ha il fisico per il trono: la settimana scorsa tre diverse persone in tre diverse città mi hanno scritto «sono qui con il migliore amico di Caffo, dice che» – seguivano dettagli di cos’avrebbe fatto Caffo adesso, neanche fosse la Franzoni nel 2002, e naturalmente erano tre diversi migliori amici: ha più migliori amici lui da vivo che la Murgia da morta.

Vediamo se riusciamo a rendere lo stesso servizio a Tony Effe, che non a presentare un libro a una fiera ha dovuto rinunciare, ma al concerto di capodanno al Circo Massimo a Roma. Dice che le donne del Pd sono indignate per i suoi testi sessisti, dal che scopro che Tony Effe ha dei testi, e che qualcuno s’è pure preso il disturbo d’ascoltarli.

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Io non so bene quando capiremo che questa cosa di vagliare la fedina morale rispetto alle apparizioni pubbliche non può funzionare, anche perché di morale ognuno ha la sua, e quando ieri a Bologna hanno annunciato che la statua di questo capodanno sarà opera di Fumettibrutti e sarà «una fenice transfemminista» (qualunque cosa sia), io prima mi sono chiesta da dove venga la tenacia del sindaco Matteo Lepore nel cercare di far vincere le elezioni a Bologna ai nazisti dell’Illinois, e poi ho pensato chissà le polemiche quando scoprono che il vecchione (nome tecnico della statua di capodanno) viene bruciato come simbolo dell’anno finito, e state bruciando la fenice traaaaans, allora ditelo che siete transfobiciiii.

Però è pur vero che un criterio per decidere come spendere i soldi pubblici devi averlo, e «vogliamo qualcuno che canti bei testi» è valido quanto un altro, solo che a quel punto non so chi resti, perché non è che l’Italia di questo secolo pulluli del sottinsieme che incrocia la categoria «grandi parolieri» e quella «gente disposta a esibirsi nel capodanno in piazza»: cioè, Paolo Conte non ti ci viene, e De Gregori neanche. Quindi chi resta? Leonardo Caffo sa cantare? Dirige l’orchestra il maestro Peppe Vessicchio, testi di Baruch Spinoza.



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