In Sardegna la nuova via ‘Ai Pastori Alpinisti dei Supramontes’

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Stregato. Mi guardo intorno. Il vuoto sotto di me è totale. Sembra risucchiarmi verso il profondo della Codula Elune (Codula di Luna), tempestata di infinite falesie e speroni isolati. Questo è il mio Supramonte. Il territorio sardo dai mille segreti che più mi attira, che più amo. Domino gli spazi. Il mio scranno è una poderosa branca di ginepro che come un tentacolo sporge vertiginosamente nello strapiombo. Le radici sgattaiolano nella lunga fessura. Lo ancorano saldamente alla parete. Mi infonde sicurezza. Verde. Vigoroso, Vetusto.

Sono a più di 100 metri d’altezza alla fine di questo diedro. Manca poco alla vetta ormai. Siamo al 5°e penultimo tiro della nostra prima libera. La difficoltà è tutta alle mie spalle, ne sono consapevole, in quell’ostica placca. Un turbinio di sensazioni inebrianti mi investe. Sorrido. Sul filo dei pensieri rivivo i momenti in cui per la prima volta timidamente pensai che questa suggestiva guglia inviolata dai climbers potevamo scalarla. Un primo ostacolo non da poco: come arrivare alla base? Tentai di farlo tre volte. In tre distinte, infinite giornate esplorative.

La prima volta da Brocciu – varcando Montes Longos (“i monti alti”) – letteralmente rotolando fra le pietraie peggiori dei Supramontes. Improponibile passare per quelle scarpate. Vi lascia forse attoniti sapere che qui a Brocciu ed in un ovile appena più in alto, a Su Montigheddu Istaggiau, abbia trascorso la propria vita Bobore Piras, urzuleino verace, pascolando capre e maiali e raggiungendo – nonostante una vita imbevuta di fatica e privazioni – la veneranda età di 103 anni.

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Successivamente tentai da Bacu Su Cardu Pintu. Pendenze pazzesche. Storcerebbero il naso anche gli atleti di trail nel muoversi su un fondo così ripido e sconnesso, figuriamoci gli amici scalatori…).

Infine provo da Teletottes risalendo Bacu Sarachinu, “il canalone dei Saraceni”, secondo un’interpretazione del toponimo, dove si pensa che in probabile epoca post medievale una ciurma di pirati risaliti da Cala Luna siano stati fermati dai Sardi prima che raggiungessero qualche villaggio per catturare bestiame o schiavi, quest’ultimi la merce più preziosa da rivendere nei mercati del nord-Africa. I pirati hanno saccheggiato per secoli le coste della Sardegna, come ben sapete. Ma è sorprendente pensare che si siano spinti a tanti chilometri dalla costa, risalendo impervi valloni dove nemmeno esistevano le numerosissime piste dei carbonai attuali.

Rimanendo in tema vi riporto un altro aneddoto, più attendibile legato alle incursioni piratesche in questa aspra zona del Supramonte: a breve distanza dalla fine della Codula esisteva un villaggio ora fantasma, Èltili, fra Urzulei e Baunei, abbandonato nel 1500 forse a causa di una pestilenza. È legato ad un episodio giunto ai giorni nostri svoltosi a Bacu Sa Femina, “Il canalone della donna”, un affluente della grandiosa Codula ‘e Sisine che culmina nell’omonima, nota cala. Nonostante la forte distanza del luogo dal mare, nelle memoria popolare è rimasto vivo il ricordo di una donna rapita dai predoni del mare proprio in prossimità del villaggio di Èltili e poi condotta verso le navi ancorate a Sisine. Ci fu la reazione degli abitanti. L’inseguimento. La lotta. La liberazione della donna nell’angusto bacu – centinaia e centinaia anni fa – che da allora ne reca il nome.

Torniamo sui nostri passi… a Bacu Sarachinu alla ricerca di un accesso per la base di Su Caddu. Finalmente ci siamo! Riapro e ripulisco fra erti ghiaioni, anche con l’aiuto del mio amico Luca, un vago sentiero che dal Bacu ci porta sotto parete in 40 minuti. Duro ma fattibile!

A parte i tentativi per trovare un attacco decente questa è la nostra sesta volta a Su Caddu ‘e Marcu Spanu (“il cavallo di Marco Spanu”, probabilmente per la somiglianza con la testa e la groppa di un cavallo…del pastore Marcu Spanu). Massacranti gli avvicinamenti alla base, soprattutto per colpa dei nostri zaini da 15-18 kg carichi di trapano, batterie, spit, corde, moschettoni, tanta acqua altrimenti irreperibile. Più di 5 ore A/R e almeno 500 metri di dislivello. Senza contare le 3 ore d’auto da Sassari per giungere a Teletottes.

Non vedo Luca. La sosta è nascosta ma lo immagino attento come sempre alla sicura. Godo degli spazi. Immerso nei luoghi che mi circondano. Quelli amati che scopro ormai da 25 anni durante indimenticabili esplorative o alla guida di piccoli gruppi di amici capaci, appassionati della propria terra.

Frugo con lo sguardo. Il grande canyon di Codula Elune si apre sotto di me. Immenso. È di una severa, folgorante bellezza. Fra i suoi meandri è un ininterrotto brulichio di pareti, creste, cenge, guglie. Come rivoli dopo una pioggia torrenziale, da monte a valle una macchia impenetrabile incastona ogni emergenza rocciosa, penetra fra le fessure ed i massi calcarei, contendendosi ogni magra zolla. Appare tutto così ostile, inospitale, selvaggio. Chi osava violarlo?

Regno di fiere, avvoltoi, rapaci. Erano forse loro gli unici a riuscire a sopravvivervi. Fino a metà Novecento proprio gli avvoltoi (“Gutturgios”) erano stanziali qui nel Supramonte prima di scomparire del tutto. Alcuni figli di pastori del limitrofo Supramonte di Orgosolo raccontano che in passato i loro padri ne videro fino a sessanta tutti assieme sul promontorio di Frunc’Arvu (“la cima bianca”)!

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Il grande canyon, insomma, sembra spegnere sul nascere le brame di insediamento dell’uomo del passato senza il supporto della modernità. È un inganno. La storia antica e recente racconta che l’uomo vi sopravvisse. Vi prosperò. Questi luoghi hanno un anima. Un anima rupestre.

La svelano gli insediamenti preistorici risalenti ad almeno 3000 anni fa quando un nucleo del popolo nuragico- quello che incredibilmente eresse circa 8000 nuraghes (torri) nell’isola – vi si stabilì. Colonizzò i fianchi della Codula in modo capillare. Occupò grotte. Costruì villaggi. Elesse luoghi deputati al culto. Prima della triste scure dei carbonai nell’800 e sino ai primi del ‘900 quello che oggi è macchia era bosco. Immagino leccete immense dove spesso non riuscivi a vedere il sole fra le folte chiome. Fornivano ghiandatico in abbondanza per la selvaggina varia e numerosa. Ecco perché l’uomo preistorico riuscì a stanziarsi. Nei deboli pianori fra i rocciai riuscì persino a coltivare i cereali.

Ancora oggi si possono ammirare alcune macine e macinelli nel villaggio di Or Murales. È a un tiro di schioppo da Su Caddu. Lo distinguo dal mio trespolo, in cima a un promontorio boscato, separato dal nostro torrione da un canalone impervio con pendenze paurose e dirupi repentini: il succitato, temibile Bacu Cardu Pintu. Nell’insediamento nuragico di Or Murales puoi entrare in decine e decine di capanne nuragiche circolari….interi isolati. Manca parte del tetto ma riflettere sul fatto che queste siano in piedi da tre millenni ed i muri siano alti alcuni metri…è semplicemente sbalorditivo.

Scricchiola un po’ il ramo sul quale sono appeso quando cambio posizione. Mi metto a cavalcioni. È una pianta forte. Non mi preoccupo. Mi sono ormai abituato stare faccia al vuoto. Luca urla per saper se ho problemi. Per un attimo mi scuote. “Tutto a posto…tranquillo…” gli faccio eco.

È la prima volta che non ho fretta, abbiamo tutto il tempo per rientrare ad un orario ragionevole.Sprofondo nuovamente nei ricordi. Rivivo l’avventura di qualche mese prima a Su Iradorgiu, una grande cresta posta appena a nord di Su Caddu. Molto raramente un’escursione mi ha regalato cosi tanto.

Sappiate che questo nido d’aquila è un luogo unico, non ha paragoni con i 10.000 è più siti nuragici dell’isola: un inconcepibile, piccolissimo villaggio dell’età del bronzo o inizi età del ferro arroccato alla fine di una lunga cresta strapiombante dove per giungervi, per i pochissimi impavidi che vi riescono, occorre scalare, nel vero senso della parola, una parete di 50 metri! Quindi molto prima dei temerari pastori alpinisti del Supramonte abbiamo avuto gli alpinisti nuragici.

L’ipotesi più seducente è che questo luogo fosse deputato al culto: era un luogo alto, un luogo vicino alle divinità, un luogo di preghiera. Forse le genti che abitavano il popoloso villaggio nuragico di Or Murales, distante appena qualche km in linea d’aria, venivano qui a pregare e praticarvi rituali. In questa ottica le capanne richiamavano le più recenti “cumbessias”, le casette dei pellegrini di fede cristiana in Sardegna. Quassù abitavano famiglie nuragiche per alcuni giorni all’anno ,in concomitanza con eventi particolari? Magari legati agli astri o al ciclo delle stagioni? Io suppongo di sì. Questo era un luogo mistico. Questa era una rocca sacra. E per questo mai nessuno scalatore dovrebbe aprirvi una via sui suoi fianchi

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Vagabondo fra i ricordi. Torno al presente. Mi sovviene delle prime volte che dall’alveo della Codula intravvidi Su Caddu. Ne colsi tutta l’imponenza. Sapevo che si poteva arrivare sulla cima dalle spalle, dalla normale. Mi apparve come un pulpito scolpito fra i calcari. Come una bastionata turrita dalle pareti verticali. Isolata. Inviolata. Imprendibile. Fu amore a prima vista.

Si erge imperioso sulla riva sinistra di Codula Elune e culmina con una sorta di guglia che sfiora i 150 metri d’altezza. Proprio quí dove noi siamo abbarbicati. La malia è accresciuta dai cromatismi delle pareti: si va dal grigio al giallo, al rosso, all’ocra. Tratti lisci di placca si alternano ad ampi grottoni e piccoli tafoni vermigli posti a varie quote. Ne scaturisce un ambiente surreale. Come minuscoli granelli ora io e Luca ne siamo orgogliosamente parte.

Sollevo lo sguardo sul versante opposto, la riva orografica destra, dove in lontananza distinguo le creste dentellate di Serra Oseli, la guglia di Monte Garbau in basso e le gigantesche verticali di Esone intervallate da lunghissime cenge boscose. Distinguo l’enorme grottone di Marrosu, annidato fra i rocciai, anch’esso occupato da genti antiche come testimoniano le numerose ceramiche.

Perso nuovamente fra i pensieri rivivo attimi delle esplorative fra quelle pieghe calcaree. Ognuna di esse ridesta in me un ricordo indelebile alla ricerca di Iscalas (sentieri ripidi ed esposti/ scale in ginepro) e Piggios (cenge) dei pastori scalatori: S’Istrada ‘e Donneneitu, Su Piggiu Longu, S’Unglone ‘e Su Monte Andau…

In quest’ultima “scala” siamo passati col mio amato gruppo proprio nel 2024 per raggiungere il remoto Bidunie dove abbiamo ri-scoperto un nuraghe ancora non censito (!) su un cocuzzolo dimenticato per segnalarlo in seguito alla Soprintendenza. Altre emozioni impagabili. Sempre qui insiste un altro esteso villaggio nuragico e fino agli anni ‘70 vi era un insediamento pastorale; tutte genti attirate dal fertile e raro plateau vulcanico emerso fra i magri calcari. Sappiate: era l’ovile più lontano del Supramonte di Baunei. Dal paese occorrevano al pastore ben 7 ore di cammino per raggiungerlo a piedi! Antonio Canu, anziano ma vivente, orfano di madre da piccolo, mi ha raccontato che vi ha lavorato da bambino di 9 anni col padre fino ai 19 quando emigrò per sfuggire a quella durissima vita.

È ora di darmi una mossa. Il mio amico là sotto non ne potrà più. Scalo pochi metri ed arrivo in un’ampia terrazza dove avevo predisposto la sosta la volta precedente, quando eravamo in apertura. Urlo a Luca di salire. In un baleno arriva. Ora tocca a lui completare l’ascesa. Una formalità l’ultimo tiro, il più semplice dei sei. E…siamo in vetta!

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Un colpo d’occhio fantastico che si perde in uno spicchio di mare Non sto nella pelle. Ci abbracciamo. Trattengo a stento una lacrima. In vetta si è cementata anche una vera amicizia. Non avrei potuto desiderare un compagno migliore di avventura per altruismo e tenacia.

Ho chiodato dall’alto quasi 100 monotiri nel Sassarese. Se li sommassi tutti non mi regalerebbero la soddisfazione, l’entusiasmo, il vigore che provo ora. È la nostra prima via lunga, interamente attrezzata dal basso secondo l’etica delle multipitch. Ne siamo fieri.
Arrampicare una parete vergine, essere noi i pionieri, dominare il timore di cadere da un cliff hanger, progredire nonostante tutte le paure ho scoperto essere la massima espressione arrampicatoria.

Mi viene in mente il nome esemplificativo di una linea che ho chiodato anni fa a Chighizu (SS) che riprende un mio detto in sardo Sa timoria no battidi gloria ( a paura non porta gloria). Per riuscire ci siamo presi dei rischi, da farci paura. Ma abbiamo reagito e non siamo mai tornati indietro fino al successo. Cito un episodio su tutti: quando Luca ha seguito una linea di roccia apparentemente sana al quarto tiro, che ahinoi si è rivelata a rischio frana con dei lastroni paurosamente fessurati. Ha dimostrato molto coraggio e sangue freddo nel progredire suo malgrado in quel tratto instabile ed allestire una sosta fra i sassi pericolanti. Purtroppo abbiamo dovuto rettificare la linea la volta successiva (sprecando una giornata di 16 ore fra avvicinamento e tempo in parete).

La via la dedico di cuore a tutti i pastori – scalatori dei Supramontes, vale a dire a quegli uomini di forte tempra che hanno praticato vera e propria arrampicata fra le numerosissime iscalas e pizos ( scale/sentieri erti ed esposti e cenge), senza corde nè protezione alcuna. Impavidi. Li immagino. Li ammiro. Li vedo. Si muovono con sapiente disinvoltura facendo affidamento esclusivamente sulle proprie abilità, sul proprio coraggio laddove io sarei stato scosso da brividi senza una corda all’imbrago. Penso a noi scalatori, mossi dall’amore per questo sport, dalla pura passione.

Loro invece erano spinti dal bisogno: quegli uomini si esponevano ai rischi legati alle altezze ed ai passaggi fra dirupi – talvolta su roccia precaria e instabile – solo per raggiungere con le capre un magro fazzoletto di terra ricoperto di macchia o bosco (Iradorgiu- Urzulei)… più frequentemente per accorciare le distanze, arrivando all’altro lato della montagna senza compiere un giro più lungo (Hostas D’Atzas- Oliena; Sa Coa ‘e Monte Josso- Baunei).

Avendo percorso decine e decine delle loro Iscalas, alcune decisamente pericolose, resto sbalordito ed ammaliato al pensiero delle loro “gesta”.

di Graziano Dore

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