Di cosa voleva riappropriarsi la gente che, rischiando la vita, manifestava per le strade dell’Iran? Della «giovinezza rubata, delle vite non vissute, delle gioie represse» rispondeva il sociologo e scrittore irano-americano Asef Bayat, in un’intervista pubblicata un mese dopo l’inizio del movimento «Donna, vita, libertà». Movimento nato spontaneamente dopo l’ennesimo arresto di una donna che faceva un «uso improprio del velo»: Mahsa Jîna Amini, studentessa iraniana di origine curda imprigionata il 13 settembre 2022 e uccisa tre giorni dopo.
Con «la testa piena di furore ed entusiasmo», da più di due anni a questa parte, le donne – pur sapendo che la polizia spara agli occhi, che le arresta, che in prigione le stupreranno, le tortureranno, che, infine, come condizione per restituire il loro corpo, chiederanno ai loro parenti di pagare il prezzo delle pallottole con cui l’autorità statale le ha ammazzate – scendono Nelle strade di Teheran. Così il titolo del libro che una di loro ha scritto, con lo pseudonimo di Nila, pubblicandolo all’estero per proteggersi ed eludere la censura.
Di lei sappiamo solo che è nata dopo il 1979, come molte delle persone che riempiono le manifestazioni, delle ragazze che si tolgono il velo, che lo bruciano in piazza, che, correndo, fanno volare il turbante dalla testa dei mullah. «È impossibile tornare indietro. Abbiamo paura ma, ciò nonostante, scendiamo in strada. Corriamo sulle montagne dei nostri terrori come i nostri mistici sulle acque scure dell’oceano delle calamità e delle catastrofi». Certi che «se non fossimo scesi in piazza, l’indomani sarebbe toccato a noi essere arrestati, uccisi, espulsi o giustiziati».
Numerosissimi coloro che le hanno precedute: «donne condannate, senza la difesa di un avvocato, per aver difeso i diritti delle donne e dei bambini. Madri che finiscono in prigione per aver reclamato giustizia per l’assassinio dei propri figli». Donne che si danno fuoco «per affermare che non abbiamo il diritto di disporre dei nostri corpi». Oltre alle «donne e agli uomini, e sono tanti, che sulle colonne dei propri giornali, hanno scritto di questi assassinii di donne e che, prima ancora che i giornali andassero in stampa, sono stati gettati in prigione». Gruppi di «donne invisibili», apparse sporadicamente nei media di tutto il mondo «per scomparirne subito dopo» e che da 44 anni prendono posizione, in una resistenza, discontinua ma progressiva, che «ha trasformato la loro lotta in una disobbedienza civile così potente che il mondo alla fine è stato costretto ad accorgersene. Non siamo più lo stereotipo di un Paese sfortunato. Incarniamo la contestazione».
Camminando per le vie di Teheran, e raccontando questa esperienza, Nila si interroga su una generazione nata da genitori «fatti di tanti strati, come il tronco di un albero, ognuno costituito da un diverso tipo di terrore». Su un Paese «in cui nessun padre viene sconfitto dal figlio», come nella leggenda di Rostam, il protagonista del Libro dei re: una saga e una cronaca insieme, che riconduce in uno schema dinastico l’intera storia della civiltà persiana scritta intorno all’anno mille. Narra di un genitore che piuttosto che vedersi perdente diventa un infanticida. Un Paese in cui «il patriarcato che combattiamo è intimamente legato alla religione imposta dal regime», ma che «è un fenomeno che ha radici talmente estese nel mondo da collegare la nostra battaglia e quelle delle donne e di altre minoranze al di là delle nostre frontiere». Ma descrive anche un Paese che, dopo l’invasione e la conquista musulmane, 1400 anni fa, si è aggrappato al persiano, non lasciandolo per l’arabo, come hanno fatto gli altri popoli, e allo splendore di un impero scomparso. Un Paese «che è l’unico a trarre la sua identità non dallo scontro di due nazioni, ma dal confronto di una nazione e una religione». Abitato da un popolo «da sempre animato da aspirazioni di giustizia» che, a volte, nei taxi, nei negozi, o dal medico, piange silenziosamente, in una «delicatezza nel dolore» che è «confortante, perché qualcun altro capisce la ragione di quelle lacrime», e che «è una forma di comunione».
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