Costanzo Bellando: «Salvare la vita ai bambini è la mia missione. ‘Se Dio esiste non sei tu’ è la frase che mi dico sempre»

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di
Antonella Frontani

SI alterna fra la pediatria a Torino e le missioni dall’Africa al confine ucraino. Nel 1996 ha fondato NutriAid, organizzazione medico-umanitaria indipendente che combatte la malnutrizione infantile nel mondo

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Costanzo Bellando è un pediatra, ma non solo. È il fondatore di NutriAid, organizzazione medico-umanitaria indipendente, creata nel 1996 per combattere la malnutrizione infantile nel mondo, per difendere il diritto alla vita di ogni bambino. Un lavoro difficile, a volte impossibile, in cui conciliare il rispetto delle diverse culture, l’attenzione ai bisogni e ai sentimenti delle persone, la povertà che incombe nei luoghi più dimenticati della terra e l’incalzare delle guerre che li devastano. 

Da anni è il pediatra di tanti bambini torinesi, nel contempo, dal 1995 ha partecipato a dieci missioni in Ruanda, quattro in Madagascar, tre in Senegal, una nella Repubblica Democratica del Congo, una nel 2016, nelle isole greche per assistere i bambini migranti, fino a pochi giorni prima della chiusura delle frontiere. Subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina ha raggiunto il confine con la Romania per organizzare un ambulatorio pediatrico a favore dei bimbi che tentano, insieme alle loro famiglie, l’attraversamento. Stessa operazione organizzata anche in Valle di Susa a favore dei migranti che sognano di approdare in Francia. Da trent’anni gira il mondo per raggiungere i luoghi in cui è a rischio la vita dei bambini a causa della fame, della povertà, delle malattie.




















































Quando ha preso coscienza che lo scopo della sua vita sarebbe stato quello combattere la malnutrizione infantile nel mondo?
«Molto presto… a cinque anni, insieme al mio amico d’asilo. Credevo di voler diventare ingegnere, come mio zio, e di lavorare in Africa come un cugino agronomo, mentre il mio amico sognava di diventare medico. Siamo cresciuti guardando le foto dei bambini che morivano di fame in ogni paese del mondo. Io volevo costruire un ospedale, il mio amico avrebbe voluto curare i bambini».

Non diventò ingegnere ma medico…
«Fu inevitabile. Rimasi influenzato dall’attività che svolgevano i miei genitori. Mia madre, psicologa, offriva assistenza ai più fragili e mio padre è stato il direttore, poi presidente, della sezione Alta Italia della SIOI, Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale fondata in un’epoca segnata dalla devastazione della Seconda Guerra Mondiale. L’impegno di mio padre, negli Anni 50 nell’ambito della SIOI, fu quello di favorire, attraverso una serie di iniziative, l’adesione italiana ai principali Organismi Internazionali, quali la Nato, il Consiglio d’Europa, le Nazioni Unite e la Comunità Europea. Il primo insegnamento che ho ricevuto è stato quello della collaborazione tra popoli».

Quale è stato il momento in cui ha deciso di diventare pediatra?
«È stato un “click”. Al quarto anno di medicina ascoltai una conferenza del professor Claudio Fabris, responsabile della reparto di neonatologia della Clinica Ostetrico- Ginecologia dell’Università di Torino e del professor Enrico Bertino, all’epoca suo assistente. Spiegarono il momento in cui un bambino ricoverato in incubatrice vince la sua sfida con la morte. In quel preciso istante decisi che avrei fatto il pediatra impegnato nella lotta per la sopravvivenza dei bambini sfortunati».

Dove avvenne la prima esperienza?
«In Ruanda, nel marzo del 1995, otto mesi dopo il terribile genocidio».

Che situazione trovò?
«Spaventosa. Il genocidio del Ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’umanità del XX secolo. Nel corso dello scontro tra Tutsi e Hutu, che avvenne dal 6 aprile 1994 per cento giorni, vennero massacrate a colpi di machete circa un milione di persone, mentre circa due milioni fuggirono, dopo il genocidio, nel timore di vendette. La tragedia comportò, oltre alle gravissime condizioni psicologiche, la povertà più assoluta, dunque, una drammatica malnutrizione infantile. I bimbi erano quasi tutti orfani o, semplicemente, rimasti soli».

La guerra dilaniava le famiglie.
«Regnava il caos più totale. Offrimmo il nostro contributo anche per ricongiungere le famiglie. Ricordo ancora la disperazione dei genitori che vagano per giorni in cerca del proprio figlio e l’emozione indescrivibile nel momento in cui potevano riabbracciarlo dopo averlo creduto morto».

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Come organizzò il lavoro?
«Mi resi conto in fretta che bisognava costituire un’associazione che raccogliesse fondi e coinvolgesse i medici necessari ad affrontare le prime necessità in termini di malnutrizione. Bastò parlare con alcuni amici e affiggere un cartello al Regina Margherita per trovare le figure professionali necessarie: nacque NutriAid.».

Quale fu la prima sede?
«Il primo centro, nato per volontà di Paola Pellegrinetti e Nadine Donnet, venne trasferito in un’ex scuola francese. Era composta da quattro aule per il ricovero, la sala visita, un campo da pallone riconvertito in orto».

Un orto?
«Sì, è fondamentale insegnare alla mamma la coltivazione dei cibi con cui devono imparare ad alimentare i bambini».

È soprattutto un problema di formazione…
«Certo. Bisogna spiegare che la disidratazione del bambino e la pancia gonfia non sono le conseguenze del malocchio esercitato dal vicino ma della malnutrizione che lo affligge».

Perché si gonfia la pancia di un bambino malnutrito?

«Per semplificare, la carenza proteica unita a un quadro di infiammazione crea l’accumulo di liquidi nei tessuti».

Come deve essere alimentato un bambino malnutrito?
«È un processo lento e molto, molto delicato. Se non si procede per gradi la somministrazione di cibo, o di proteine, potrebbe causare uno scompenso cardiaco e provocare la morte. Bisogna iniziare somministrando piccole dosi di latte a basso valore proteico riconosciuto dall’OMS».

Quali sono le persone con cui ha condiviso trent’anni di volontariato?

«Tante. Alcune: Anna Macchieraldo, per molto tempo presidente di NutriAid, Giorgio De Marchi, Fulvia Negro, che ha fondato il Centro Bambi al Regina Margherita, mia moglie, Rosalba De Pace, Antonella Demarchi, direttore di NutriAid e tanti, tanti altri».

Come ha imparato a gestire il divario con la nostra quotidianità?

«Ho dovuto imparare a contenere l’emozione per non soccombere e sviluppare il necessario distacco».

Cosa si prova quando si salva un bambino?
«Pura felicità. Non è solo un gesto di altruismo ma anche un viatico per la felicità. Salvare una vita vuol dire salvare se stessi».

Come scongiurare un senso di onnipotenza?
«Ricordando a se stessi che se Dio esiste, non sei tu».

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Il distacco emotivo di cui parla Costanzo ( da tutti conosciuto come “Chico”) ha una crepa: durante il racconto la voce s‘incrina per un attimo di autentica commozione.

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