Al Forte di Bard la mostra su Gianfranco Ferré

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Poetico e pragmatico, il lavoro di Gianfranco Ferré potrebbe essere sintetizzato nei tagli perfetti e nell’intuito sognante delle sue eterne camicie bianche couture. Un approccio alla composizione figlio della sua formazione in architettura, per il quale “vestire una donna o un uomo significa ragionare in termini di linee, volumi, proporzioni. Esattamente come “vestire” uno spazio” diceva lui. O un’immagine, aggiungiamo noi. A darci una panoramica tutta nuova sul grande designer di Legnano è oggi la mostra Gianfranco Ferré dentro l’obiettivo ospitata nello spazio delle Cantine del suggestivo Forte di Bard e visitabile fino al 9 marzo 2025. Con la curatela del Centro Ricerca Gianfranco Ferré del Politecnico di Milano, costituito nel 2021 a seguito della donazione della famiglia Ferré dell’Archivio e della sede della Fondazione Gianfranco Ferré, e di CZ Fotografia, la rassegna indaga la sua visione progettuale partendo dalla sezione fotografica dell’Archivio Storico Gianfranco Ferré, vale a dire da ben 90 scatti originali mai esposti prima, in dialogo con abiti e bozzetti preparatori.  

Il legame tra Gianfranco Ferré e la fotografia di moda 

Una scelta inusuale, se vogliamo, quando si parla di uno stilista di moda, in quanto “l’abito è sempre interpretato come l’elemento che materializza in maniera più immediata ciò che custodisce l’archivio” ci spiega Paola Bertola, coordinatrice del Centro di Ricerca. Che aggiunge: “Ferré ha avuto l’occasione nel corso della sua carriera di lavorare con alcuni dei più grandi maestri della fotografia di moda in una fase, tra la fine degli Anni ‘70 e l’inizio degli anni 2000, che ha visto lo sviluppo di questo linguaggio come un linguaggio autonomo. Quindi non soltanto capace di comunicare prodotti di moda, ma capace di comunicare l’evoluzione di una società, in un momento in cui è cambiata profondamente la cultura contemporanea”.

Gianfranco Ferré, l’architetto della moda

Dunque, a tradurre e cristallizzare l’inequivocabile tocco dell’”Architetto della moda” troviamo proprio il point de vue di otto fotografi, selezionati insieme a Rita Airaghi, storico braccio destro di Ferré e direttrice della Fondazione. Procedendo non cronologicamente ma per affinità di sensibilità e linguaggi visivi, l’allestimento presenta una galleria centrale che strizza l’occhio alle quadrerie seicentesche, dove la teatralità cerebrale di Gian Paolo Barbieri dialoga con l’essenziale chiaroscuro di Michel Comte, con i ritratti intimi di Bettina Rheims, piuttosto che con i frammenti cinematografici rubati ai tetti di Parigi da Peter Lindbergh. Si passa dalla simmetria surrealista degli scatti di Guy Bourdin al realismo spontaneo di Patrick Demarchelier, fino all’alterità glamour di Herb Ritts. Per concludere con l’inafferrabile pulizia di Steven Meisel, nonché firma dietro la prima copertina di Vogue Italia. Quella della camicia bianca by Ferré, per l’appunto, immortalata addosso a Robyn Mackintosh come baluardo del “nuovo stile”.

La mostra su Gianfranco Ferré

Accanto al corridoio fasciato di luce si aprono poi sei sale che, come varcando la soglia in una camera oscura, portano il visitatore dietro le quinte dell’immagine, tra fotocolor, diapositive, note e provini preparatori. Un’operazione di decostruzione progettuale, un viaggio a ritroso, rivelatorio, mostrandoci passo passo il lunghissimo processo che ha portato al risultato finale. Per il quale “senza la capacità di creare insieme, di condividere le emozioni, di fare lavorare insieme l’occhio e l’anima, la fotografia sarebbe vuota, fredda, inutile e falsa”, scrive lo stilista nel 1995 nelle sue Lettres à un jeune couturier. Contestualmente le sei stanze si fanno metafora dei sei principi della dinamica alla Ferré: comporre, ridurre, enfatizzare, ricalibrare, decostruire, emozionare. Un modus operandi evocato spesso nei suoi scritti e applicato ad ogni abito esposto, come testimoniano i bozzetti, gli schizzi e le cartelle materiali che lo accompagnano. 

La tecnologia nella mostra su Gianfranco Ferré

Da notare che oltre al percorso fisico si attivano percorsi digitali attraverso QR code di approfondimento volti ad estendere la risonanza delle opere. Tanto che in chiusura non manca “una sorta di gioco, di sperimentazione legata all’intelligenza artificiale”, che sulla base delle nozioni vestimentarie elaborate da Gianfranco Ferré riscopre, ricalca e reimmagina quel suo “l’intervento programmato e consapevole sulle forme” nel presente.

Aurora Mandelli

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