La decisione della Corte Costituzionale ha salvato la Romania e l’Europa

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Come in Moldova e Georgia, nelle ultime settimane la Romania si è trovata davanti a un bivio: scegliere la via europeista di Elena Lasconi, la candidata di Unione Salvate la Romania, o quella filomoscovita dell’outsider Călin Georgescu. Ma un bivio con un vizio di base: era truccato, come dimostrano i documenti declassificati dal Consiglio Supremo di Difesa dello Stato (Csat) sulle influenze esterne a opera «di uno Stato estero». E come ha sentenziato la Corte Costituzionale che venerdì 6 dicembre, quando già trentamila romeni avevano votato all’estero, ha annullato in toto le elezioni azzerando il processo elettorale. Tardi e in modo antidemocratico, dicono in molti, come la contendente di Usr; in modo corretto, secondo il premier Marcel Ciolacu, anche se, subito dopo le rivelazioni del Csat, aveva aperto al sostegno a Lasconi, in cambio della nomina di capo del nuovo governo. 

Perché Georgescu non è stato escluso dalla corsa elettorale quando aveva dichiarato zero euro di spese elettorali? Il primo errore è stato fatto dall’Autorità Elettorale Permanente, garante delle regole sul finanziamento elettorale, che non aveva investigato subito. «Come nello sport, se in una competizione qualcuno bara, non importa se arriva primo, viene eliminato. E se il nostro Stato esiste, deve difendersi da personaggi come Călin Georgescu», dice a Hotnews la politologa Alina Mungiu-Pippidi, docente presso la Hertie School of Governance di Berlino. Il secondo errore appartiene alla Corte Costituzionale che, decidendo il riconteggio del primo turno, aveva di certo posto un primo paletto alla scalata di Georgescu, ma danneggiato indirettamente la candidata liberale. Altri errori appartengono ad altri esponenti dei vertici istituzionali, riluttanti a far emergere un contesto di ingerenze già ben chiaro prima delle elezioni.

Una decisione tardiva ma necessaria, che era meglio arrivasse prima, di cui Lasconi e Usr non dovrebbero lamentarsi, perché ha scongiurato il male peggiore per il Paese. Un atto che ha fatto tirare un sospiro di sollievo agli elettori, stanchi degli scossoni delle ultime settimane, e alla comunità internazionale, sconcertata di fronte all’intera gestione del processo elettorale e dall’immagine di Stato fragile che la Romania ha trasmesso all’estero. «Lo Stato era effettivamente in pericolo. Il primato della legge, che in Romania nessuno vuole capire, significa che la sovranità esiste entro questi limiti. La legge suprema è la Costituzione e garante della Costituzione è la Corte Costituzionale», dice ancora Mungiu-Pippidi, che dirige dal 1996 il più longevo think tank romeno, la Società Accademica della Romania.

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Dopo la sentenza della Corte, la vita nelle strade di Bucarest ha ripreso il suo corso, gli abitanti pensano al Natale, mentre pioggia e nebbia hanno scoraggiato le manifestazioni. A trattenere le azioni di piazza anche la notizia dell’arresto del gruppo di mercenari armati di Horațiu Potra, personaggio vicino a Georgescu, che si preparava a creare scompiglio nelle eventuali manifestazioni dopo il ballottaggio annullato. A casa di Potra sono stati rinvenuti un intero arsenale e due milioni di euro, di cui mezzo in cassaforte. Posto sotto sorveglianza e rilasciato, l’ex combattente della Legione straniera è vicino a un altro personaggio della cerchia di Georgescu, Eugen Sechila, leader del movimento neolegionario (neofascista), accusato di utilizzo e diffusione di “simboli fascisti, legionari, razzisti e xenofobi”, vietato da un’ordinanza di governo del 2002.

La Gendarmeria della capitale romena ha continuato nei giorni successivi all’annullamento delle elezioni a sorvegliare le piazze del centro, mentre un gruppo di incalliti seguaci di Georgescu a presidiare il piazzale davanti al Teatro Nazionale, manifestando «per la pace», «la neutralità militare nel conflitto in Ucraina», «la famiglia tradizionale», «No alla vaccinazione senza consenso informato» e «No alla persecuzione dei preti romeni ortodossi in Ucraina». I messaggi sovranisti, per acquisire credibilità, si mescolano sempre a rivendicazioni condivisibili, come quella contro le pensioni speciali o per la riapertura della chiesa di quartiere. E’ l’immagine plastica dell’esistenza di due Romanie, una convinta del suo percorso europeo, un’altra che crede che il Paese entrerà in guerra al fianco dell’Ucraina e che «Zelensky è un criminale eterodiretto che manda i suoi a morire».

La minaccia Georgescu non è stata la sola causa del disastro elettorale, ma forse solo l’esacerbazione del deterioramento della classe politica che in trentacinque anni dalla rivoluzione romena non ha saputo realizzare le riforme necessarie al Paese. Mircea Geoană, candidato favorito ed ex vicesegretario Nato, punta il dito sulle «insoddisfazioni di diverse classi sociali». È un errore imputare tutta la responsabilità al candidato filolegionario, perché «la Russia gioca sulle fratture interne alla società, alcune molto gravi». E non ci sono solo le fratture, ma anche una certa tolleranza per chi glorifica il passato legionario degli anni Trenta, che la diffusa nostalgia per il passato comunista della maggioranza degli elettori socialdemocratici non pare scardinare.

Il 21 dicembre i nuovi parlamentari eletti giureranno, mentre il nuovo governo, a cui sta lavorando un tavolo di coalizione europeista che comprende Psd (socialdemocratici), Pnl (liberal-conservatori), Usr (liberali) e Udmr (minoranza ungherese), potrebbe nascere già il 23, con un programma e un candidato comuni per la presidenza. Come nel Parlamento europeo, intorno ai partiti di estrema destra c’è un cordone sanitario. Le nuove elezioni presidenziali sono previste probabilmente il 16 e 30 marzo e, secondo la legge, il presidente Iohannis resterà in carica fino ad allora e nominerà il prossimo primo ministro.

Non illudiamoci, le trattative, tra partiti che fino a ieri si sono fatti la guerra, non è semplice, anche se sarà necessario essere pragmatici, dato che il governo sarà di transizione e che con il nuovo presidente bisognerà crearne un altro. I nodi riguardano la politica economica, che per Usr, ad esempio, prevede il taglio della spesa pubblica accumulata dal governo Psd-Pnl e gli incentivi alle imprese. Tutti sembrano invece concordi che il governo dovrà essere più snello, con meno ministeri (16 invece di 18, 12 per Usr), segretari e sottosegretari.

È partito il toto candidati per la presidenza. Dal Pnl si fa strada il nome del presidente Bolojan.

Da casa libdem, qualcuno cita Nicușor Dan, sindaco generale di Bucarest. L’opzione più ragionevole, dicono alcuni, sarebbe puntare su Lasconi, che ha ottenuto tra tutti gli europeisti il risultato migliore. Ma questo non piace a casa Psd, che ha il dente avvelenato per aver mancato il ballottaggio per la prima volta da Ion Iliescu in poi, e che potrebbe passare all’opposizione se gli altri partiti dovessero insistere sulla candidata.

La Romania questi giorni si lecca le ferite, ma ha anche motivo di festeggiare. Il Consiglio giustizia e affari interni dell’Unione europea ha ufficializzato la definitiva entrata nello spazio Schengen, anche per le frontiere terrestri. «Ora la Romania è davvero nell’Unione europea al cento per cento. È importante, davanti ai tentativi di disgregazione a cui abbiamo assistito», ha commentato il ministro dell’interno Predoiu. La Romania perde attualmente dieci miliardi di euro all’anno per via delle attese dei veicoli alle frontiere (2-3 ore in media), le ricadute economiche saranno quindi consistenti. Il primo gennaio 2025 il paese festeggia 18 anni nell’Unione europea e questo è il miglior regalo possibile. Il prossimo sarà la capacità di votare un presidente che sia, nelle parole dello scrittore Mircea Cărtărescu, «una persona onesta, dalla parte giusta della storia».

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