Tornerà il tempo in cui sarà nuovamente un piacere venire a Gerusalemme. Senza paura di un premier che se ne frega dei palestinesi e pure degli ostaggi, di chi vive qui vicino in un lager a cielo aperto chiamato Gaza, dei missili che arrivano giorno e notte dal Libano, annunciati dalle lugubre sirene di guerra. Tornerà il tempo in cui sarà un privilegio dormire all’American Colony Hotel. O anche solo cenare o bere un aperitivo in questo albergo che da quasi un secolo e mezzo è uno dei simboli di una delle città più belle del mondo. Raccontare l’American Colony, emblematicamente situato giusto al confine tra la zona araba e quella ebraica, vuol dire raccontare la storia di una città come Gerusalemme, di una nazione mai vissuta in pace come Israele, di due popoli che meritano entrambi uno stato ma sembra sempre cosa impossibile. Questo racconto lo ha fatto Francesco Battistini, uno dei giornalisti italiani che meglio conosce il Medio Oriente, in questo Jerusalem suite, pubblicato da Neri Pozza Editore. Francesco Battistini è inviato speciale al Corriere della Sera. Ha seguito le vicende dei Balcani dalla guerra di Bosnia in poi. È stato corrispondente da Gerusalemme, ora si occupa prevalentemente di Europa dell’Est, Medio Oriente e Nord Africa. È stato su una una dozzina di conflitti in tutto il mondo, dall’Afghanistan all’Iraq al Medio Oriente.
L’American Colony di Gerusalemme è sempre stato sulla prima linea del conflitto arabo-israeliano. Non è solo un albergo storico e di fascino. Nato quasi 150 anni fa nella vecchia casa di un effendi, culla d’una piccola colonia di presbiteriani americani, il Colony, sul limite fra l’Est e l’Ovest, ha sempre cercato d’essere un luogo di neutralità, di dialogo, d’incontro fra cristiani, ebrei, musulmani. Il libro è la storia di questo albergo. Raccontato attraverso i suoi personaggi, le sue stanze, gli eventi che l’hanno abitato. Fu un lenzuolo del Colony, usato come bandiera bianca, a sancire la fine della dominazione ottomana. Qui venivano Lawrence d’Arabia a rifugiarsi e Churchill a ridisegnare il Medio Oriente, Selma Lagerlöf a scrivere il suo romanzo da Nobel e Mark Twain a riposarsi. Nel 1948 da questi tetti si sparavano la Legione Araba e la Banda Stern. Durante le guerre dei Sei giorni e del Kippur in questa reception bivaccavano i giornalisti di tutto il mondo. In questi giardini giocava un piccolo Rudolf Hess, futura anima nera della Shoah, e nella camera 16 ci furono le prime trattative per gli accordi di Oslo. Qui alloggiava Tony Blair quand’era inviato per la Cisgiordania e Gaza e qui passava John Kerry, dopo gli incontri con Netanyahu. Il Colony è ancora oggi una piccola Palestina nella Gerusalemme occupata, dove molti leader palestinesi non mettono piede, e insieme un pezzo d’Israele che pochi politici israeliani frequentano. Una terra di nessuno e di tutti. Plato Ustinov vi piantò due palme della pace più volte incendiate e poi ripiantate dal nipote Peter. Durante le intifade, il Colony era una fortezza sicura: un rigido statuto fissa le quote “etniche” dei camerieri che vi possono lavorare, e per questo nessuno l’ha mai attaccato. Il Colony ha visto ventun guerre, trenta piani di pace, ventidue accordi, ottocento risoluzioni Onu. L’autobiografia di tre religioni, due popoli, una città. Fabio Poletti
Francesco Battistini
Jerusalem suite
2024 Neri Pozza Editore
pagine 432 euro 22
Per gentile concessione dell’autore Francesco Battistini e dell’editore Neri Pozza pubblichiamo un estratto dal libro Jerusalem suite
Accade di sabato. Come accadrà di sabato il Sette Ottobre del 2023. È lo Yom Kippur, l’unico giorno in cui in Israele nulla si muove, neppure le auto. I negozi e gli u ffici dei quartieri ebraici sono chiusi, le caserme sono vuote, i bus non sgasano sulla Nablus Road, tacciono la radio e la tv, la gente è in sinagoga. È anche il decimo giorno di Ramadan, il riposo islamico, e le botteghe palestinesi alla Porta di Damasco aprono al tramonto. In tanto silenzio, solo l’American Colony è una piccola isola di rumore. C’è il famoso brunch del sabato. Un appuntamento fisso per i diplomatici, i giornalisti, i viaggiatori, il disperato popolo «gentile» che di shabbat non sa mai dove apparecchiarsi. I camerieri in abito nero, tutti arabi, hanno già poggiato i vassoi del bu ffet sulle tovaglie bianche: la lingua in gelatina e il tacchino freddo, il vitello tonnato e la mousse di fegatini, il manzo farcito d’olive e il paté maison, le quiche al formaggio e il caviale di melanzane, e ancora l’hummus, la limonata alla menta e non mancano i buoni vini fran- cesi. Mrs Val ci tiene che tutto sia perfetto: «Abbiamo fatto diventare questo appuntamento un’attrazione per l’intera città. È una cosa a cui presto molta attenzione». Ne va fiera, e lo dice anche a un giornalista del New York Times: «Penso che questo brunch sia il miglior servizio possibile, in questa parte di Medio Oriente. Il personale è attento all’educazione, alle buone maniere. Molti camerieri sono qui da molti anni, li ho abituati a esercitare il senso innato d’ospitalità che è negli arabi: non devono mai pensare che il servizio sia servile».
Nella Gerusalemme occupata, non c’è più l’atmosfera da cortina di ferro di sei anni prima. E gran parte del personale palestinese patisce qualche gesto arrogante dei nuovi clienti: «Se un ospite vi tratta male» garantisce Mrs Val, «rivolgetevi a me. Noi vi proteggiamo. Andremo di persona a parlare con quel signore e a spiegargli che qui dentro, se si vuole un servizio educato, si dev’essere educati». La signora Vester è molto attenta a spegnere i focolai. E a controllare da vicino i dipendenti: «Il loro unico difetto, è che non sono metodici. Non fanno mai la stessa cosa due volte allo stesso modo! Questo mi tiene sulle spine. E ogni sabato, mi costringe a essere presente».
Alle 14.15 del 6 ottobre 1973, presa dalle sue piccole grandi preoccupazioni, Mrs Val sta curando il servizio ai tavoli.
Le sirene d’allarme cominciano a strillare.
Dal giardino si precipitano nella hall.
La telescrivente, l’unica rimasta dai tempi del ’67, comincia a battere impazzita: «Le forze egiziane e siriane hanno attraversato le linee di cessate il fuoco con Israele, avanzando nel Sinai e sulle alture del Golan».
La quarta guerra arabo-israeliana è la più inattesa: una sorprendente risposta all’attacco a sorpresa di sei anni prima. La più inutile: troverà e lascerà gli stessi confini tracciati dalla Guerra dei sei giorni. Ma perché nessuno l’ha vista arrivare? C’entra il senso d’onnipotenza maturato con tre vittorie militari in vent’anni. E la riconquista di Gerusalemme, dopo duemila anni d’esilio. L’Israele dei primi anni Settanta è un Paese ubriaco di retorica. «Siamo sulla mappa e intendiamo restarci!» I kibbutz che brevettano le tecniche più avanzate di bioingegneria agricola. Le università che sfornano la più alta percentuale di premi Nobel. Gli ospe- dali che diventano un modello di ricerca imitato ovunque. La più popolare delle canzoni, Gerusalemme d’oro, una ninna basca riadattata in ebraico, il vero inno nazionale, che viene aggiornata con una strofa sulla riunificazione: «Siamo tornati al bazar della città vecchia, / lo shofar sta suonando al Monte del Tempio…» S’inaugura la festa del Jerusalem Day, per celebrare la città occupata, e tutti questi trionfi sono uno schiaff o ai palestinesi che vi assistono muti di rabbia, impotenti. L’onda del Sessantotto arriva anche qui, ma in una forma tutta sua, e coinvolge solo i giovani ebrei: a Musrara, un vecchio quartiere non lontano dal Colony, spuntano perfino le Pantere Nere di Angela Davis. E alzano i pugni, imitando il movimento dei neri americani. La voce urlante degli ebrei magrebini, che si sentono discriminati dall’élite aschenazita.
A Musrara, che ai tempi della Linea Verde stava nella parte ebraica, sono rimasti ancora un po’ di palestinesi. Guardano, ingoiano, non partecipano. In questo rione è nato e cresciuto anche un giordano silenzioso, sfuggente, un tipo strano che i pugni non li mostra mai, ma li tiene ben serrati in tasca. Si chiama Sirhan Sirhan e da bambino ha visto il fratello morire, schiacciato da un camion militare israeliano: sua mamma dice che da quel trauma, il suo ragazzo, non s’è mai più ripreso. Sirhan è stato in America, ora è tornato. A Sheikh Jarrah lo vedono spesso, bazzica i cambiamonete e i ca è della Salaheddin Road, passa ore a fumare sui gradoni della Porta di Damasco. E a bere: molto, troppo. Quand’è ubriaco, finalmente parla e straparla. Dice di considerarsi un eterno senzapatria, e di sentirsi provocato da tutto quel trionfalismo israeliano con le bandiere bianco- blù, i corni, le fanfare.
«Andai a vedere la parata ebraica sionista che celebrava la vittoria del ’67 sugli arabi» racconterà, «e fu quello il ca- talizzatore che mi fece scatenare».
All’improvviso, Sirhan se ne va da Gerusalemme. Nessuno sa dove sia diretto. La famiglia non ha quasi più notizie. Finché non ricompare in tv, il 5 giugno 1968. In mondovisione. È in un hotel di Los Angeles. Ha in mano una pistola, aspetta che entri nella sua traiettoria il prossimo candidato democratico alla presidenza per tirare otto colpi e passare alla storia come l’uomo che sparò a Bob Kennedy, il fratello di JFK. «L’ho ammazzato perché sosteneva Israele» dice: ha scelto l’anniversario dell’ultima sconfitta, la Naksa, ed è la prima volta che la violenza del conflitto arabo-israeliano entra in America. Oggi Sirhan ha ottant’anni. Ogni cinque, chiede d’essere scarcerato. Inutilmente.
© 2024 Neri Pozza Editore, Vicenza
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