Lavoreremo fino a 90 anni? La crisi del sistema pensionistico italiano – Parte 1

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  In Italia, la spesa per le pensioni supera il 15% del Prodotto Interno Lordo, una quota tra le più alte al mondo. Questa situazione fa temere che il sistema pensionistico del Paese sia sempre più vicino al collasso. Con un debito pubblico enorme, lo Stato si ritrova con le mani legate e non ha molte risorse da mettere sul piatto. In poche parole, mancano i soldi per sostenere i pensionati. Questo ci porta a chiederci se in futuro dovremo davvero lavorare fino a un’età molto avanzata. Sono Edoardo, oggi analizziamo la crisi delle pensioni in Italia, soffermandoci sul funzionamento del sistema, sulle cause dell’attuale crisi e sulle possibili soluzioni.

All’origine del modello italiano c’è un’idea semplice ma cruciale: il “patto di solidarietà intergenerazionale”. 

  Significa che le pensioni di oggi vengono pagate con i contributi dei lavoratori di oggi. A loro volta, i lavoratori di adesso si aspettano di ricevere la pensione quando toccherà alle generazioni successive contribuire. Questo sistema, chiamato “a ripartizione”, funziona bene finché l’economia cresce e la popolazione è in espansione. Negli anni passati, con un numero elevato di lavoratori, meno pensionati e stipendi in aumento, i contributi versati erano abbondanti. Così, garantire pensioni solide non era un problema.

Tra gli anni Sessanta e Ottanta, l’Italia poteva contare su tanti giovani che pagavano i contributi per un numero più ristretto di anziani, e i loro stipendi crescenti garantivano afflussi costanti di denaro. In questo contesto, a partire dal 1969 fu adottato il sistema retributivo, che calcolava la pensione basandosi sull’ultimo periodo lavorativo, in genere quello dei guadagni più alti. Mentre in gran parte d’Europa si usava già il metodo contributivo, legato all’insieme dei contributi versati in tutta la carriera, in Italia si privilegiava il retributivo, più generoso. Questo approccio, tuttavia, si reggeva sull’idea che la crescita economica e demografica non avrebbe rallentato.

Negli anni Ottanta, però, la situazione inizia a cambiare. La crescita demografica si arresta: le nascite scendono fino a eguagliare o superare di poco il numero delle morti. Anche il ritmo di crescita dell’economia rallenta. Il sistema italiano, basandosi sulla solidarietà intergenerazionale, aveva bisogno di un numero elevato di lavoratori che pagassero i contributi per finanziare le pensioni di un numero inferiore di pensionati. Ma con meno giovani e uno sviluppo economico ridotto, il meccanismo inizia a scricchiolare. 

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  C’è un altro aspetto da chiarire: i contributi versati dai lavoratori non vengono investiti per generare rendimenti futuri. Vengono impiegati quasi interamente per pagare le pensioni correnti. In altre parole, non si accumula un “tesoretto” per il futuro. Questo diventa un problema quando si immagina un domani con sempre meno lavoratori giovani e stipendi non abbastanza alti per sostenere le pensioni in corso.

Alla metà degli anni Novanta, la situazione appare insostenibile senza una riforma. Nel 1995 arriva la riforma Dini, che introduce in Italia il metodo contributivo al posto di quello retributivo. L’obiettivo è rendere il sistema più sostenibile nel lungo termine. Calcolando la pensione su tutti i contributi versati durante la carriera, e non solo sugli ultimi anni (quando lo stipendio è più alto), si ottengono assegni pensionistici meno generosi ma più in linea con le reali disponibilità. Tuttavia, viste le forti resistenze, il cambiamento viene introdotto gradualmente.

Chi aveva già 18 anni di contributi nel 1995 poté conservare il sistema retributivo. Chi lavorava da prima del 1995, ma non aveva raggiunto 18 anni di contributi, passò a un regime misto: i contributi pre-1995 contavano come retributivi, quelli successivi come contributivi. Solo i nuovi lavoratori entrarono da subito nel sistema interamente contributivo. Questa transizione lenta e articolata significava che per molti anni i nuovi pensionati italiani avrebbero ancora beneficiato del vecchio sistema retributivo, limitando i vantaggi immediati della riforma.

In sostanza, la riforma Dini non risolve immediatamente il problema. Il sistema rimane fragile perché le nuove regole entreranno in pieno vigore solo dopo molto tempo. Nel breve e medio termine, cambia poco: il rischio di squilibrio resta, e serviranno interventi più decisi per evitare che il sistema collassi.





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