I dati sulla cassa integrazione che esplode

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Il Paese non corre più. Anzi, non si muove proprio. Non bastavano i numeri della produzione industriale, il crollo dell’auto a -40% e la frenata della moda a -3,6%. Non bastavano le stime dimezzate del Pil 2024 da parte dell’Istat. I dati che fanno più male perché incidono la carne viva della popolazione sono quelli che certificano l’esplosione della cassa integrazione. “Una fotografia di un pezzo consistente del Paese reale”, commenta amaramente la segretaria confederale della Cgil nazionale, Maria Grazia Gabrielli.

Al netto dei voli pindarici di Giorgia Meloni e del suo Paese delle meraviglie, la verità è un’altra, fa male e fa paura. È quella di settembre, mese nel quale sono state autorizzate 43,6 milioni di ore di cassa integrazione. Quella della crescita del ricorso agli ammortizzatori sociali nei primi nove mesi dell’anno che, rispetto allo stesso periodo del 2023, ha fatto un balzo in avanti di 23 punti percentuali. E la preoccupazione, commenta Gabrielli, si proietta sui mesi futuri, guardando al “forte grado di incertezza che caratterizza le prospettive di crescita per il 2025”.

Il governo la sa lunga e, forse per questo, non ce la vuole raccontare. Chi si occupa di questi dati specifici, infatti, evidenzia che sarebbe necessario avere un monitoraggio costante mentre, a oggi, il calendario degli osservatori statistici Inps non prevede aggiornamenti dei dati fino a fine anno. Insomma, se tale condizione sarà confermata, prima del 2025 non si saprà qual è la situazione, “nonostante la preoccupazione di un’ulteriore crescita dell’utilizzo della cassa integrazione sia prioritaria”.

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Del resto, il dipartimento che in Cgil nazionale si occupa di seguire il mercato del lavoro ci spiega, con un’immagine molto efficace, che il totale delle ore di cassa autorizzate da gennaio a settembre corrisponde a 232 mila lavoratrici e lavoratori rimasti a zero ore.

I dati nel dettaglio

L’esplosione della cassa, dati alla mano, riguarda più quella ordinaria che quella straordinaria. E anche questo è un indizio dell’aria che tira tra gli imprenditori. Perché la cassa integrazione ordinaria è, storicamente, la prima leva che le imprese tirano quando sale la preoccupazione o succede qualcosa che può cambiare lo scenario. E, qui e ora, c’è solo l’imbarazzo della scelta, a cominciare dall’incertezza internazionale. Se poi analizziamo le crisi di settore, quelle, già citate, dell’automotive e indotto e della moda – pelli, calzature, abbigliamento, tessile – c’è poco da stare allegri. La moda, per capirci, ha subito un colpo durissimo in termini di cassa in Toscana, Marche, Veneto ed Emilia-Romagna. E sale la tensione anche nella meccanica di precisione di aziende medie e piccole, terziste per conto di aziende tedesche, e nel commercio.

Geograficamente, al netto della coerenza tra settori più colpiti e territori tradizionali di produzione, l’esplosione della cassa è a macchia di leopardo e colpisce tante province anche molto distanti. La città maglia nera, al momento, è Lecce: qui il dato schizza a un +275%. Ci sono poi Sondrio, Reggio Emilia, Arezzo, Ascoli Piceno.

A questo quadro nerissimo va aggiunta una considerazione che spesso volutamente si dimentica: il primo “ammortizzatore sociale per le imprese” resta la decisione di lasciare i precari a casa. Quando l’aria si fa pesante, lavoratrici e lavoratori a termine e somministrati sono i primi a saltare alla scadenza dei contratti e non vengono tracciati dalle statistiche sulla cassa integrazione.

“Quei lavoratori che già sono precari e con un reddito discontinuo non dovrebbero essere i primi sacrificati e sacrificabili nella gestione delle crisi. Uno degli obiettivi primari – spiega la Gabrielli – dovrebbe essere quello di tenere insieme, in maniera inclusiva, tutti i lavoratori e trovare anche soluzioni adeguate. Di fronte alla crisi di un’azienda non si dovrebbero recidere quei vincoli di solidarietà e si dovrebbero ricercare risposte il più uniformi possibili”.

Le priorità

Secondo la Cgil servirebbero ulteriori iniezioni di supporto, visto che in molte situazioni gli ammortizzatori ordinari sono già esauriti. “Per la crisi del settore moda – cita ad esempio la segretaria – ci vorrebbe una copertura in proiezione per tutto il 2025, ma la discussione parlamentare dopo anche un’azione attivata dall’opposizione ha portato ad aggiungere altre quattro settimane alle otto già indicate nel 2024 e la copertura di settori inizialmente non inclusi: la dead line, insomma, è il 31 gennaio”. Poi si vedrà.

L’automotive invece non ha ricevuto risposte in legge di bilancio. Nell’industria e nella manifattura soluzioni e supporti latitano, nonostante la contrazione dei mercati. Per garantire continuità di reddito e occupazione servono ammortizzatori ordinari e straordinari, laddove non fossero sufficienti, ammortizzatori in deroga per evitare rischio di licenziamenti”.

Per non parlare delle grandi transizioni di cui si discute in Europa: quella digitale e quella ambientale. “Processi che pongono la necessità di supportare scelte politiche industriali ben definite per orientare nuove scelte produttive. Il governo dovrebbe anticipare misure a supporto di queste grandi transizioni per garantire continuità mentre si ammodernano strutture, tecnologia e processi produttivi. Per farlo senza il rischio di ridurre l’occupazione. Sulla legge di bilancio abbiamo provato a proporre ammortizzatori ad hoc, dedicati alle transizioni, senza risposte da parte del governo. Eppure questi sono fattori che dovremmo anticipare”.

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Il problema degli ammortizzatori sociali va osservato da una prospettiva più ampia. “Davanti alle grandi vertenze come Ilva, Cartiere Fedrigoni, Beko, Stellantis, va considerato che l’effetto della crisi aziendale si propaga a un intero settore, trascinando con sé l’indotto e gli appalti. Non si può lasciare indietro nessuno”.

“Per evitare tutto questo, il governo dovrebbe fare scelte di politica industriale che adesso non fa – come non ha visione in merito ai settori del terziario, dei servizi, del turismo, della cultura – e a queste scelte dovrebbe correlare strumenti, finanziamenti e investimenti unendo politiche passive e politiche attive che possano orientare e supportare i processi formativi sul lavoro. Eppure, a sentire la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali, Maria Elvira Calderone, si è puntato tutto sulla costruzione della piattaforma SIISL, nella quale sarà l’intelligenza artificiale a incrociare l’offerta delle aziende e la domanda di inoccupati e disoccupati. Peccato che a oggi in alcune regioni chi ha accesso alla piattaforma trova corsi di formazione assolutamente generici, quando li trova, o altrimenti il nulla”.

Il rischio è trovarsi scoperti di fronte alla competizione europea e globale. Potremmo finire – conclude Maria Grazia Gabrielli – per aprire voragini occupazionali anziché sfruttare le nuove opportunità di creare lavoro e di qualificare e mantenere quello che c’è”.

Una visione, una strategia, insomma, di fronte alla mera narrazione. Servirebbe questo per ridurre quei numeri sulla cassa integrazione che alla fine sono storie di vita vissuta. Sapere su cosa puntare e razionalizzare gli investimenti. Per cambiare una realtà che è sempre più nera.



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