Un inventario della violenza racconta giustizia e società

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Non è il libro a cui pensa da un po’ per dire la sua su come va la Giustizia nel nostro Paese, anche se qualche eco delle proprie vicende personali, della sua vita di magistrato che è venuta prima e ha poi accompagnato quella di scrittore, drammaturgo, sceneggiatore emerge anche qui – il resto lo aveva raccontato già nel 2012 con In giustizia (Bur). Ma, come accade in alcune delle suo opere più elaborate, quasi dei «romanzi-mondo» come L’agente del caos (2018), Suburra (2013) e, soprattutto, Romanzo criminale (2002), c’è nel modo in cui Giancarlo De Cataldo riannoda i fili della nostra memoria pubblica, intessuta di crimini eccellenti e di misteri spesso tutt’altro che inafferrabili, qualcosa di talmente personale che sembra rimandare prima di tutto all’empatia, alla voglia di voler comprendere prima ancora che di giudicare.

UNA PROPENSIONE tutt’altro che scontata e meno che mai banale se accompagna ciò che De Cataldo racconta in Per questi motivi (Sem, pp. 198, euro 18), ricostruendo quella che il sottotitolo del volume definisce senza mezzi termini come l’«autobiografia criminale di un Paese». Dietro la formula «Per questi motivi», che i giudici penali utilizzano per introdurre la lettura del dispositivo di una sentenza, «il verdetto» nel quale saranno indicati colpevoli e innocenti, l’ex magistrato – è in pensione dal 2022 – ha scelto di riunire una serie di delitti che, come spiega lui stesso, «mi sono sembrati emblematici di un Paese o di un’epoca e che mi hanno accompagnato nella mia evoluzione personale cambiando il mio modo di pensare». E che, analogamente, hanno prodotto un’eco nel dibattito pubblico o più semplicemente nella riflessione di molti altri, e attraversato l’esperienza di diverse generazioni.

Perché, a scandire la cronologia di sangue di questa sorta di storia d’Italia all’ombra dei crimini violenti sono vicende come il Caso Montesi del 1953, che lasciava intravedere le faide che dividevano il potere democristiano dell’epoca, il Caso di Christa Wanninger, modella e aspirante attrice tedesca assassinata nel 1963 che sarebbe passato alle cronache come uno dei «delitti della Dolce Vita». O ancora quello di Terry Broome, la «modella assassina» della «Milano da bere» del 1984, fino all’uccisione di Simonetta Cesaroni a via Poma, a Roma, nel 1990.

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Celebri e tragici casi di «nera» che si intrecciano con le storie dei cosiddetti «anni di piombo», Sergio Ramelli, Walter Rossi, gli attentati delle Brigate Rosse, la strage fascista alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980. O drammatici echi nostrani del terrorismo internazionale, come l’attentato palestinese alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, quando fu ucciso il piccolo Stefano Gaj Taché.

Per finire con la morte violenta di Pier Paolo Pasolini, ucciso la notte del 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia: quasi il simbolo terribile del sovrapporsi di fatti di sangue che hanno riguardato dei singoli, per quanto noti, alle tragedie collettive che hanno segnato il Paese, e a lungo, finendo per aggrovigliare in una matassa spesso inestricabile la grande Storia con le traiettorie personali di molti.

Alcuni sono «casi» che De Cataldo ha ricostruito in Cronache Criminali, la trasmissione andata in onda su Rai1 che ha scritto insieme a Giovanni Filippetto, e condotto in prima persona. In altri è stato coinvolto da magistrato. Altri ancora, infine, ne hanno interrogato l’intuito e la coscienza critica in una stagione dove l’«uso politico» della cronaca nera si è fatto sempre più pressante e l’emergere delle fake news e delle «realtà alternative» ha rimpiazzato la controinformazione e le inchieste «dal basso» di un tempo.

NELLE PAGINE di Per questi motivi, De Cataldo restituisce respiro narrativo a storie note e ad altre dimenticate dai più, riflettendo sull’accaduto, sull’impatto che quei fatti hanno avuto sull’opinione pubblica e l’evoluzione della società italiana, e sul modo in cui la giustizia se ne è occupata, giungendo o meno ad una qualche forma di verità, perlomeno giudiziaria. Consapevole, come scrive presentando la sua opera, che «un caso giudiziario» non sia mai soltanto «un caso»: «La penso come Gadda, dietro ogni omicidio c’è una pluralità di cause, uno gnommero, un groviglio, una matassa che non sempre si riesce a districare. Ma è un tentativo che bisogna fare nell’interesse collettivo e per comprendere quanto il fenomeno criminale incide sulla vita di tutti noi».



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