Brainrot. I social non rimbambiscono i giovani ma gli fanno pensare al lavoro in modo diverso

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“Brainrot”: cervello marcescente. È questa la parola dell’anno secondo l’Oxford Dictionary. Si tratta di un neologismo inventato, manco a dirlo, in America, e che indicherebbe il presunto “deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona a causa di un consumo eccessivo di contenuti digitali considerati banali o poco stimolanti” ed è stato associato soprattutto alle giovani generazioni. La cosa interessante, però, è che a decretare la parola dell’anno non sono stati degli anziani linguisti, ma oltre 37mila partecipanti a una votazione pubblica.

Tracciare parallelismi con il tempo in cui i nostri genitori o nonni ci mettevano in guardia dalle ore passate davanti alla tv pare fin troppo facile – e in fondo anche piuttosto ragionevole. Tuttavia, fare spallucce di fronte a un fenomeno emergente espone al rischio di sottovalutarlo. Una cosa, infatti, ci indica che non si tratta solo dell’ennesimo caso di contumelia à-la “eh, signora mia, i giovani di oggi”: il fatto che sono gli stessi giovani a essere forse i più consci del problema.

Secondo uno studio dell’anno scorso che ha coinvolto mille studenti americani, per esempio, pare che i giovani interpellati sarebbero stati addirittura disponibili a pagare per fare in modo che qualcuno facesse smettere a loro e alle persone intorno a loro di usare social come Instagram e TikTok. Un altro studio su focus group della stessa Meta svolto nel 2021 pare abbia rilevato che i teenager ritengono Instagram responsabile dell’aumento tra i coetanei dell’ansia e della depressione – che negli Stati Uniti stanno raggiungendo livelli da epidemia.

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Forse anche per questo i giovani hanno un rapporto con i contenuti digitali ben diverso da quello delle generazioni precedenti. Mentre per la generazione X e per i millennials i social media sono stati e sono uno strumento di comunicazione ed espressione, per i ragazzi di oggi sono soprattutto un canale di intrattenimento e distrazione. Tik-tok, per esempio, è oramai quello che Marshall McLuhan avrebbe chiamato un “media caldo”: non è pensato per essere utilizzato, ma per essere guardato.

L’elemento fondamentale di distinzione generazionale, però, probabilmente è un altro. Per i giovani di oggi strumenti, media e contenuti digitali non hanno alcun carattere di straordinarietà o di magia: semplicemente sono il panorama in cui sono nati e cresciuti. Poter acquistare un tablet a 20 euro dalla Cina o esplorare nel dettaglio una strada secondaria di una cittadina australiana è per loro normale come lo era per noi veder sfrecciare un’automobile per strada.

Questo essere compiutamente “nativi digitali”, questa loro assenza di memoria di un mondo analogico, informa certamente il loro pensiero individuale e collettivo, e per questo crea anche delle incomprensioni con le generazioni precedenti rispetto ad alcuni concetti fondamentali. Tra questi, soprattutto il lavoro, l’impegno, la fatica. Questa distanza concettuale e forse anche valoriale si coglie in particolare nel diverso significato che i giovani danno ad alcune parole che ancora oggi costituiscono il vocabolario del lavoro.

Prendiamo per esempio la parola “talento”, di cui il mondo delle risorse umane è pieno. Per le generazioni precedenti – e in particolare per noi millennial – è stata una parola perfettamente credibile e funzionale. D’altronde, siamo nati e cresciuti in un periodo di generale ottimismo e in cui il confronto sociale era limitato. I nostri genitori, i media, la società hanno insistito molto nel dirci quanto eravamo importanti e speciali; a incentivarci a “credere nei nostri sogni”. E siccome per essere considerati in gamba al tempo bastava spesso emergere solo nel confronto con i pari età del vicinato, e poiché il mondo sembrava progredire rapidamente e le opportunità moltiplicarsi a vista d’occhio, noi ci abbiamo creduto.

Ovviamente, per i giovani d’oggi lo scenario è del tutto diverso. Non solo ogni spinta ottimistica sembra essere stata espunta dal dibattito pubblico, ma soprattutto il confronto sociale si è allargato fino quasi a diventare mondiale. Oggi un ragazzo a cui piace giocare a calcio accede a TikTok e vede bambini di 6 anni fare numeri da circo; una teenager alle prese coi primi trucchi su Instagram trova una ridda di immagini di modelle che propongono standard di bellezza irreali. Per loro pensare di poter essere dei “talenti” o delle persone “speciali” è molto meno credibile.

Discorso simile si potrebbe fare per altre due parole ancora molto in voga nel mondo del lavoro: “passione” e “impegno”. La prima è stata soprattutto una parola chiave dei millennial, che sempre per i motivi sopra citati hanno pensato di dover mettere tutto loro stessi per realizzare quella missione per cui sembravano essere nati: “cambiare il mondo”. Un trasporto che si è visto in modo lampante nella sbornia per le start-up, per esempio: l’idea che ognuno potesse creare un’innovazione di portata mondiale se si chiudeva in un garage senza uscirne neanche per dormire o andare al bagno. Un afflato quasi messianico che oggi appare ridicolo, specie agli occhi dei giovanissimi.

“Impegno” invece è stata ed è una parola cara alle generazioni ancora precedenti, genX e boomer, perché sono cresciute in un mondo in cui l’idea del merito e della meritocrazia erano forti e credibili. Hanno vissuto la loro gioventù in un mondo che dopo i due conflitti mondiali spesso aveva piallato molte asimmetrie sociali e sguarnito accessi un tempo molto ben sorvegliati a sale del potere. Le gerarchie andavano ricostruite, e chi dimostrava particolare dedizione, spirito d’iniziativa e magari qualità innate aveva buone possibilità di emergere.

Oggi cosa vedono i giovani quando guardano ai vertici della società, della politica, delle imprese – specie quando appaiono sui social? Gente che non sa nemmeno parlare bene l’inglese e che ancora è in imbarazzo con le nuove tecnologie: roba che per loro, come detto, è scontata. Persone che non si formano da anni, che spesso sono anche “figlie di” e che riscuotono grande consenso e ammirazione anche per azioni tutt’altro che meritevoli – basta guardare chi è appena stato rieletto negli Stati Uniti.

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Tutto questo ha ovviamente gravi ripercussioni su altre parole e concetti ancora molto cari ai senior di oggi, come “gavetta” e “carriera”. Se oramai le storie lavorative lineari sono un’eccezione, se la formazione continua è davvero un’esigenza irrinunciabile, e soprattutto se è vero che neanche le grande imprese danno sicurezze nel medio-lungo periodo, allora che senso ha fare la gavetta e cercare di scalare le gerarchie interne? Perché bisogna impegnarsi tanto se quello che fino a ieri ti si diceva era una competenza fondamentale da apprendere oggi sembra poterla svolgere un algoritmo – e figuriamoci domani?

Ma forse la cosa peggiore, la distanza generazionale più ampia è quella che riguarda il futuro collettivo; l’idea che col lavoro, soprattutto quello collaborativo, si possa costruire un futuro migliore. Non a caso, i giovani sono dei grandi fautori dello smart-working. Perché ne individuano i pregi, certo, ma anche perché propone un’idea del lavoro come mero scambio funzionale, in cui la dimensione relazionale e collettiva si riduce a orpello se non a zavorra.

In conclusione, i giovani di oggi non sono rimbambiti dai social. Hanno però un grave difetto – anzi, due: sono pochi e sono disillusi. Non pensano, come sempre hanno fatto i giovani nella Storia, di prendersi il presente con la loro maggior esuberanza ed energia; non credono che il futuro possa davvero portare qualcosa di buono. La loro forza di protesta si concentra sui diritti civili – che hanno infatti una dimensione perlopiù individuale – mentre quelli sociali vengono snobbati. La loro attenzione si rivolge all’ecologia – tema pregno di ineluttabilità per un futuro lontano – mentre svicola sulla crescente disuguaglianza – tema invece collettivo e di stringente attualità.

Manca un progetto di futuro; una nuova “grande narrazione” che possa mobilitare le energie dei giovani – e non solo. Farli tornare a sperare, e a lavorare per un futuro migliore. Possiamo solo sperare che presto siano loro a proporla. Noi invece dovremmo quanto meno cominciare a parlare e forse anche praticare il lavoro e l’impegno in maniera diversa.



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