Dai contributi sulle copie cartacee al credito d’imposta sulla carta ai contributi diretti alle testate: panoramica dei sussidi di Stato all’editoria. Per distinguere gli interventi dalle mance
Francesco Gaeta
Potrebbe esserci anche la web tax a complicare in futuro la vita ai gruppi editoriali. Con la nuova legge di Bilancio, il governo sta progettando di abolire i limiti all’imposta del 3% sui ricavi delle imprese digitali. A pagare non sarebbero solo le grandi piattaforme, quelle che superano i 750 milioni di euro di ricavi (di cui 5,5 milioni realizzati in Italia) che vendono pubblicità, fanno intermediazione tra domanda e offerta e gestiscono o vendono dati degli utenti, ma tutte le aziende del web, testate digitali comprese.
Il Governo prevede di ricavare 51,6 milioni di euro da questa nuova versione dell’imposta. A danno però del mondo dell’informazione. Che rischia quello che Netcom – il consorzio che rappresenta oltre 480 aziende del digitale italiano – ha definito un effetto cascata. «Le aziende che forniscono servizi digitali, dalla pubblicità online all’hosting di dati, potrebbero essere costrette ad aumentare i prezzi per compensare i nuovi costi fiscali». Questo aumento si rifletterebbe cioè su tutte le imprese che utilizzano questi servizi, imprese editoriali comprese.
Ecco perché la proposta di riforma ha causato reazioni contrarie sia tra gli editori che nel sindacato dei giornalisti. «Con l’estensione della platea dei contribuenti – ha dichiarato la FIEG – si colpiscono tutte le imprese digitali italiane, accentuando lo svantaggio competitivo nei confronti dei colossi globali del web». «La web tax così come concepita in manovra – ha dichiarato la segretaria della FNSI Alessandra Costante – può avere effetti controproducenti sulla tenuta occupazionale di un settore messo già a dura prova».
Il contesto
Sappiamo bene come oggi la «dura prova» riguardi sia le imprese editoriali digital first, cioè nate sul digitale, ma a maggior ragione quelle che dalla carta sono transitate negli anni al digitale e faticano a trarne fonti di ricavo. Secondo i dati dell’Agcom, nel primo semestre del 2024 i quotidiani hanno registrato un calo del 9,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre le copie digitali, anziché compensare la perdita, sono diminuite dell’8,7%. Questo trend negativo impatta molto sulle testate minori e lambisce anche le cinque principali testate generaliste – Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Avvenire e Messaggero – le quali tuttavia mantengono una certa stabilità con una variazione minima (-0,1%). In ogni caso se si allarga lo sguardo su un orizzonte temporale più ampio il quadro si fa decisamente più fosco per tutti. Dal 2020, le vendite complessive di copie cartacee dei quotidiani hanno subito una contrazione del 29,4%, mentre le digitali sono calate del 6,4% nello stesso arco di tempo, delineando una crisi che colpisce ogni attore e tutti i segmenti del mercato.
Dello stesso tenore i segnali che arrivano dagli investimenti pubblicitari. Nel 2023 i quotidiani hanno registrato entrate pubblicitarie per circa 420 milioni di euro, un calo del 4% rispetto al 2022 e quasi la metà rispetto ai livelli di dieci anni fa, quando si attestavano a 809 milioni. La quota di mercato della pubblicità sui quotidiani è scesa al 4,6%, rispetto al 10,7% del 2014. Questo declino si inserisce in realtà in un contesto di crescita generale degli investimenti pubblicitari (+21% in dieci anni), che però si concentrano principalmente sul web, dove i grandi operatori digitali continuano a dominare il mercato, sottraendo risorse ai media tradizionali che faticano a trarre dal web fonti di ricavo e utili alternativi al calo del settore cartaceo.
La fine della pubblicità legale
La nuova (possibile) web tax è fa seguito a un’altra recente riforma che si sta traducendo in mancati introiti e in bilanci più pesanti per le imprese editoriali. Dal gennaio 2024 è infatti caduto l’obbligo di pubblicazione sui quotidiani dei bandi e dell’esito delle gare e degli appalti pubblici, quella che nelle concessionarie è nota come “pubblicità legale”. La modifica è stata introdotta dal nuovo Codice dei contratti pubblici del 2023, e risponde alle direttive europee in tema di digitalizzazione degli appalti, tema centrale anche nel nostro PNRR. Gli enti pubblici sono tenuti a comunicare l’avvio e l’esito delle gare non più su quotidiani a diffusione nazionale e locale come è stato fin qui (peraltro con molte e cicliche modifiche nel corso degli ultimi anni) ma esclusivamente per via digitale, presso l’Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione Europea e sulla Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici, gestita dall’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC). La riforma risponde alla necessità di trasparenza e accessibilità delle informazioni, ma per le imprese editoriali italiane significa una perdita stimata di circa 40 milioni di euro annui. A pagare – e si vedrà esattamente quanto a bilanci chiusi, a fine anno – saranno soprattutto i quotidiani locali, in particolare quelli con sede in Lombardia, Lazio e Sicilia, le regioni con i volumi di appalti pubblici più elevati.
Il fondo straordinario
Le due ultime “riforme” danno il tono di ciò che è accaduto negli ultimi anni. Quando non imposte da obblighi esterni, come nel caso della pubblicità legale, le politiche pubbliche sul settore sono state connotate da una logica erratica e provvisoria. Si procede per tamponare, su orizzonti di breve periodo, spesso con interventi a pioggia volti a sanare situazioni particolari, nel migliore dei casi con l’obiettivo – doveroso ma non sufficiente – di attutire i costi sociali di quelle situazioni. Ha prevalso una logica da intervento emergenziale, come avvenuto in altri ambiti. Lo dicono i titoli stessi delle disposizioni normative, come nel caso del Fondo Straordinario per l’Editoria, istituito nel dicembre 2021 con la Legge di Bilancio 2022-24. Con una dotazione di 140 milioni di euro per il 2023, di cui 45 milioni destinati alle emittenti radio-televisive locali, il fondo mirava a supportare investimenti in ambiti diversi e con orizzonti strategici ben differenti: dalle tecnologie innovative per la digitalizzazione al prepensionamento per i lavoratori del comparto, fino a misure specifiche per incentivare la stampa e la distribuzione di copie cartacee. Tra queste misure anche un contributo per ogni copia cartacea di quotidiani e periodici venduti in edicola che ammonta a 10 centesimi di euro per copia (alla fine di ottobre sono scadute le domande relative alle copie vendute nel 2022). Il contributo è fisso, e indipendente dal costo del prodotto, dalla sua periodicità. Il rischio è che – come avviene in altri ambiti – sia più una mancia che un sostegno.
Il credito di imposta sulla carta
Non è stata una mancia ma una misura di contenimento dei costi il credito d’imposta sulla carta, previsto anche per il 2024 e 2025. Reintrodotto nel 2020 per mitigare l’impatto della crisi economica sulle imprese editoriali, prevede un credito fiscale del 30% sui costi sostenuti per l’acquisto della carta. Destinato sia ai quotidiani che ai periodici, il beneficio è pensato per aiutare gli editori a mantenere sostenibili i costi operativi. In questo caso l’attore pubblico interviene per mitigare (e ripartire collettivamente) i costi attraverso la leva fiscale. Ma anche dato il carattere transitorio della misura, questo non ha avuto un effetto distorsivo del mercato, come rileva il fatto che la stessa Unione Europea non ha considerato l’intervento come aiuto di Stato. Nella fase acuta dei rincari petroliferi, i prezzi delle materie prime avrebbero fatto esplodere i costi operativi delle imprese editoriali, rischiando di mandare fuori mercato molte di esse. È possibile estendere questo approccio ad altri ambiti della filiera dell’editoria? È possibile selezionare gli interventi, distinguendo quelli che hanno un reale impatto e un effetto di sostegno equo e trasparente da quelli destinati a tradursi in mance?
Il nuovo fondo unico
Il Governo Meloni dichiara che questa è l’intenzione. Per questo non ha confermato il Fondo Straordinario, affermando che quello che serve è una strategia più ampia e una ridefinizione delle priorità. Nella legge di bilancio 2024 ha modificato la denominazione del Fondo in “Fondo unico per il pluralismo e l’innovazione digitale dell’informazione e dell’editoria” con l’obiettivo rispetto al passato – è scritto sul sito del Dipartimento per l’editoria presso la Presidenza del Consiglio – «di razionalizzare e stabilizzare, rendendole strutturali, le risorse destinate al sostegno al settore editoriale e dell’informazione, con una particolare attenzione alla trasformazione tecnologica digitale del settore e dei nuovi contenuti informativi». Con l’istituzione del Fondo unico «possono infatti essere finanziate sia le misure di sostegno previste dalla legge in via permanente e stabile, che quelle decise in base alle esigenze specifiche e contingenti del settore, suscettibili di variare negli anni anche in base a fattori esogeni».
Le risorse assegnate al Fondo sono ripartite annualmente. Per il 2024, è previsto un contributo complessivo pari a quasi 196 milioni. Vi figura innanzitutto una quota di 55 milioni di euro destinata a Poste Italiane per coprire le agevolazioni tariffarie applicate alla spedizione di prodotti editoriali. Questo rimborso risponde a una politica storica volta a garantire una diffusione ampia e accessibile dell’informazione su tutto il territorio nazionale, comprese le aree remote o meno collegate.
I contributi pubblici alle testate
Vi sono poi 50 milioni di euro, volti a supportare la produzione e distribuzione di quotidiani e periodici, specialmente in contesti in cui la sostenibilità economica della stampa è più fragile. Si tratta dei contributi pubblici ridefiniti dal decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 concessi a cooperative giornalistiche, testate di minoranze linguistiche, e testate edite da enti senza fini di lucro o cooperative. Sono contributi che hanno una lunga storia alle spalle. Nel mese di ottobre è stato pubblicato l’elenco dei beneficiari della prima tranche per l’anno 2023 (pari a 46 milioni). Il contributo maggiore è stato attribuito a Dolomiten, quotidiano in lingua tedesca della provincia autonoma di Bolzano (3.088.498,02 euro). Figurano poi testate «d’area», sebbene non esattamente minoritarie, come Famiglia Cristiana (3 milioni) e Avvenire(2.8 milioni). O giornali le cui testate sono formalmente possedute da cooperative, ma nei fatti sono gestite da società commerciali, come nel caso di ItaliaOggi (2,031 milioni) del gruppo MF, del Foglio (1,039 milioni) e di Libero (2,7 milioni) del gruppo detenuto da Antonio Angelucci, deputato della Lega. Non beneficiano di contributi diretti i maggiori quotidiani nazionali, come per esempio Repubblica, Corriere della Sera e Sole 24 Ore.
Nella logica di «razionalizzare e stabilizzare le risorse» adottata da questo governo non sarebbe inutile una discussione sui criteri di assegnazione della principale voce di spesa del nuovo Fondo unico «per il pluralismo».
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